La cialtroneria della storiografia ideologizzata

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La nostra storiografia risente ancor oggi, a proposito di Alto Medioevo e di popoli “barbarici”, del giudizio sprezzante e negativo che ne diedero a suo tempo autori come Alessandro Manzoni, personaggi ideologizzati che per questioni di retorica patriottarda ottocentesca erano soliti bollare come aberrazione tutto quello che si discostava dalla romanità, dalla latinità e soprattutto dalla cristianità cattolica dell’Italia. Bersaglio principale furono i poveri Longobardi, massacrati iniquamente dando corda alle testimonianze, decisamente di parte, dei loro nemici, soprattutto papi e Franchi.

Fermo restando che la principale eredità culturale italiana è stata, è e per sempre sarà quella romana, latina, e dunque romanza, va riconosciuto l’eccesso di zelo patriottico di coloro che in epoca risorgimentale, ovviamente per ragioni di retorica e di germanofobia anti-austriaca, si sono avventurati in alcuni campi umanistici giungendo a conclusioni del tutto arbitrarie ed ingiuste sul nostro passato, esibendosi in quello che, a tutt’oggi, è uno sport sciovinistico italiano: il supermercato della storiografia e dell’etnografia. In altre parole del capriccio, caratteristico dei faziosi, in cui a seconda delle proprie inclinazioni si sceglie quale periodo salvare e quale invece cestinare, come fosse stato un gigantesco scherzo della storia da dimenticare e occultare sotto il tappeto del nazionalismo di cartapesta.

I Romani van bene i Celti no, gli Etruschi sì i Longobardi no, l’eredità greca del Sud sì ma quella gallica del Nord no e così via. Attenzione, il fenomeno è esecrabile anche capovolto, e qui entrano in campo le mascherate pontidesi della Lega che vorrebbero ridurre il Settentrione d’Italia ad una sterminata distesa di “barbari” che nulla avrebbe a che fare con Roma e il mondo classico del Mediterraneo. Qui insomma si stigmatizza il settarismo e la partigianeria di chi vuole piegare la nostra storia ai propri capricci propagandistici, ed è proprio per questo che il sottoscritto ha deciso di prendere le distanze sia, naturalmente, dall’italianismo cialtronesco che vede un’Italia tutta uguale e romana da Nord a Sud, sia dal secessionismo pagliaccesco che si immagina un Nord celto-germanico (e basta), un Centro romano (e basta) e un Sud caricaturale tutto Levante o anche peggio. Mi viene, peraltro, da ridere perché spesso vengo accusato dai romanisti di essere nazi-leghista e dai padanisti di essere invece fascio-itaGliano, segno che le posizioni equilibrate e le sfumature (razionali) risultano invise a chi è accecato da ignoranza fanatica e rodomonteria wanna-be, per usare un efficace anglicismo.

C’è però da dire che l’acme della comicità involontaria si raggiunge con gli ultrà da sacrestia che amano masturbarsi pensando ad un’Italia da sempre cristiano-cattolica, così innamorati del proprio vaniloquio confessionalista da non rendersi nemmeno conto di come la vera Tradizione italo-romana nasca dalle radici pagane ed indoeuropee e, sebbene intersecatasi successivamente con la cristianizzazione petrina, poco abbia genuinamente a che fare con tutto il bagaglio di eresie mediorientali scaturite dal giudaismo. Intendiamoci, è sciocco ignorare una connotazione (anche culturale, non solo religiosa) dell’Italia in direzione cristiana e cattolica, con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno della nostra vita, ma santi numi, noi siamo quel che siamo innanzitutto per l’eredità greco-romana e per la latinità, nonché per le nostre coloriture etno-regionali, sebbene in superficie vi sia una pennellata abramitica che sta confondendo le idee agli Italiani e agli Europei da un po’ troppo tempo.

Tornando al nostro caso specifico, che è quello relativo ai Longobardi, si deve rimarcare la tendenziosità di chi ha voluto raffigurarli come dei barbari irrecuperabili, “nefandissimi”, bellicosi e sanguinari, bestiali e incivili, oppressori di Roma, dei Romani e della romanità, e questo per ragioni di sporca propaganda politica; il giudizio sprezzante del Manzoni nasce, ovviamente, dalle testimonianze scritte alto-medievali di parte pontificia e franca, ma soprattutto pontificia, dovute a ragioni politiche e ideologiche volte ad affermare il dominio temporale della Chiesa e della sua ingordigia territoriale (il tutto, basato su notissime menzogne smascherate dagli umanisti) sull’Italia centrale e bizantina, una Chiesa rapace e dispotica che non poteva tollerare le mire espansionistiche dei Longobardi tese ad unificare politicamente l’Italia sotto la corona pavese. I papi ci tirano in casa i nostri nemici esterni dai tempi di Pipino, raggiungendo così una satanica collusione tra gli avversari interni e quelli forestieri del nostro Paese. Quelli interni, nella fattispecie, sarebbero appunto i preti di Roma capeggiati dal gran rabbino crociato asserragliato nei palazzi vaticani.

Con Liutprando, Astolfo e Desiderio la riunificazione politica dell’Italia era letteralmente ad un passo, e non fosse stato per il Vaticano saremmo (politicamente) nazione da quasi 1.500 anni (ma da più di 1.500 se si considerassero Odoacre e Teodorico), ed immaginatevi quanto marciume si sarebbe potuto evitare sventando il criminale piano pontificio consistente nella seminagione di zizzania per dilaniare il Paese, frammentandolo in decine e decine di inutili entità amministrative, indipendenti (per modo di dire, indipendenti, visto che ricadevano sotto il dominio degli stranieri). Quelli invece intrigarono con Carlo Magno, il Regno longobardo venne liquidato e l’Italia spezzata in diversi tronconi con un Nord dominato dai Franchi, un Centro asservito ai preti, un Sud longobardo e poi svevo-normanno ma alquanto ellenizzato e sotto la costante minaccia islamica di Mori e Saraceni.

Proprio per queste ragioni il “nazionalista” Manzoni, coi suoi epigoni, non solo è esecrabile ma anche ridicolo, perché demonizzando i Longobardi per glorificare i papi e i carolingi finisce per esaltare i veri nemici dell’unità d’Italia, coloro che per secoli vollero uno spezzatino peninsulare sottomesso, ininfluente, vessato dalle scorribande di qualunque popolo confinante, ridotto ad uno scenario da cartolina buono solo per i triti cliché anti-italiani: sole, mare, cuore, amore, arte, cibo e via di banalità consimili. Nei sogni bagnati dei neoguelfi un desolante panorama siffatto stuzzicava barbarici sogni teocratici, con un’italietta angariata dal romano pontefice e inaridita dalle fole mediorientali di un dio tirannico e straniero, un dio che vuole pecore e non guerrieri padroni del proprio destino.

Oltretutto le ideologie ottocentesche dello stato nazionale (contraddistinte da poco piacevoli venature massoniche) hanno contribuito a tutta la distorsione storiografica sul ruolo svolto dai Longobardi in Italia, non solo politicamente ma anche etnicamente, culturalmente, linguisticamente, da un punto di vista antropico tanto che le esagerazioni partigiane in materia sono giunte sino ad oggi, anche se fortunatamente la moderna storiografia cerca di raddrizzare decisamente il tiro a tutte le leggende nere che circondano i Longobardi. Leggende nere che, del resto, riguardano anche il Medioevo raffigurato dai soliti noti come periodo di buio, barbarie, decadenza, inciviltà, malvagità e irrazionalità da contrapporre all’Illuminismo, ma che invece andrebbe riletto con onestà ed intelligenza scoprendo così la vera essenza di quel periodo e la sua reale configurazione.

Con i Longobardi inizia il Medioevo italiano ma non fu una rottura totale col passato romano, tanto più che la fusione tra elementi germanici e romani risultò fondamentale per la fortificazione e l’ascesa del regno di Pavia, una monarchia latinizzata e immersa nella realtà italica dell’epoca che raggiunse il proprio apogeo quando l’assimilazione dell’elemento allogeno germanico a quello indigeno romanico fu compiuta. La sinergia tra forza politico-militare germanica e quella giuridico-culturale romana fu fondamentale per la gloria dei Longobardi e della loro corona e rivelò il potenziale straordinario da cui ripartire dopo il lento dissolversi delle istituzioni dell’Impero romano d’Occidente.

Paolo Sizzi

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Il Biscione Visconteo

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Uno dei simboli più rappresentativi, se non il più rappresentativo, della Lombardia è certamente il Biscione visconteo, le cui radici affondano nella storia di Milano e della stessa Lombardia.

Il Biscione rappresenta un simbolo ctonio, mitologico, pregno di significati che si potrebbero accostare a quelli del più noto basilisco, una bestia mitica, molto ricorrente nei racconti medievali, cui veniva attribuito il potere di uccidere col solo sguardo o col proprio fiato pestifero.

A questo proposito, ecco spuntare il drago Tarantasio, un mostro che secondo la leggenda infestava le acque del prosciugato lago Gerundo, ubicato in quella che oggi è la Gera d’Adda, al confine tra il Milanese e il Bergamasco; questa figura si ricollega a quella di altre fiere tipiche del mondo celtico (draghi appunto) cui veniva attribuito il mortale potere di uccidere col miasmatico fiato, proprio come il grecizzante basilisco. Appare utile ricordare che il drago, mitico animale acquatico, ben poteva adattarsi ad un clima paludoso, come quello padano degli albori, contraddistinto da primitive civiltà celto-liguri palafitticole.

Si dice che questo drago Tarantasio terrorizzasse la zona uccidendo e divorando fanciulli (ed ecco una prima interpretazione dell’uomo ingollato dal Biscione) e che per questo venne ammazzato dal capostipite dei Visconti che lo immortalò poi nel proprio stemma, in ricordo dell’impresa. Questa è chiaramente una leggenda, che peraltro coincide col prosciugamento del lago lombardo.

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Il Drago Tarantasio

Decisamente più veritiera è invece l’ipotesi che vuole il Biscione vipera adorata dai Longobardi. Essi erano molto superstiziosi e portavano al collo amuleti a forma di vipera, azzurra, inquadrata come proprio animale totemico (forse riprendendo anche il bronzeo serpente issato da Mosè nel deserto per guarire gli Ebrei morsi dai rettili desertici inviati da Dio come castigo).

Pare poi che questo simbolo sia passato al comune di Milano e da lì acquisito dai Visconti che lo fecero il proprio simbolo.

Nell’accezione longobarda la vipera, o bissa alla milanese, avrebbe un significato positivo, ctonio, da cui la vita fiorirebbe invece di essere annientata. E questo è un simbolo di chiara ispirazione matriarcale che vede nella Madre Terra, la Dea Madre, l’origine della vita, vita che da essa nasce e ad essa ritorna.

Un’altra ipotesi, suggestiva più che reale, vuole che il Biscione sia invece un simbolo orientale strappato dal capostipite dei Visconti, Ottone, durante le Crociate, ad un “infedele” ucciso in combattimento, “infedele” finito poi, nello stemma, tra le fauci del serpente a mo’ di contrappasso per simboleggiare la vittoria viscontea sui musulmani.

In effetti in alcune rappresentazioni, e descrizioni araldiche, compare una figura umana descritta come “moro” e non più come fanciullo roseo, e a questo punto potrebbe anche esservi una sovrapposizione dell’impresa milanese nella cosiddetta Terrasanta, citata anche da Giuseppe Verdi nel suo brano “Oh Signore dal tetto natio” dell’opera ” I Lombardi della prima crociata”.

Proprio qui appare interessante la similitudine che c’è tra la leggenda del Drago Tarantasio e la leggenda di San Giorgio. Anche secondo questa leggenda, ambientata però in Libano, il cavaliere San Giorgio riuscì a sconfiggere il terribile drago che infestava le acque di un lago, salvando così dal pericolo gli abitanti locali. Il quadro si fa ancora più suggestivo se pensiamo al fatto che sia il Biscione Visconteo che la Croce di San Giorgio siano dei simboli strettamente legati alle Lombardie, ai Visconti e all’Insubria in primis.

La figura guerriera di San Giorgio, al pari di San Michele, venerato anche esso dai nostri Avi Longobardi (per i quali la sua figura si concilliava bene con quella di Odino), rappresenta uno degli esempi di armonica fusione tra elementi pagani e cristiani e naturalmente la stessa cosa si può dire sul Biscione Visconteo stesso; da una parte simbolo longobardo di origine pagana e dall’altra simbolo dei crociati lombardi che sconfiggono il semita in battaglia.

Rimanendo fedeli all’ipotesi longobarda, l’uomo tra le sue fauci potrebbe essere tranquillamente un simbolo ctonio nascente, sebbene l’ipotesi del Moro fagocitato, a rappresentare la vittoria personale viscontea in Palestina, abbia il suo fascino.

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Affresco del Tarantasio nella chiesa di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore (BG)

Un’ultima interessante ipotesi, teorizzata da alcuni ambienti insubricisti, vede nel Biscione visconteo un richiamo a quegli antichi dragoni gonfi d’aria, e issati in cima ad una picca, che venivano utilizzati come vessillo da alcuni popoli germanici ma anche iranici, soprattutto a ridosso del limes; potrebbe anche darsi che in Pannonia, ove erano siti prima di dilagare nella Pianura Padana, i Longobardi abbiano acquisito questo simbolo portandolo in eredità a Milano, dove poi divenne emblema comunale e visconteo.

Il Biscione è un animale totemico, longobardo, passato poi al comune di Milano e ai Visconti, che ne fecero il proprio stemma (sempre utilizzato però da Milano, dagli Sforza al Lombardo-Veneto, finendo anche per rappresentare ambiti commerciali, pubblicitari e sportivi milanesi).

La bissa milanesa conserva a distanza di secoli il suo diuturno fascino e la vediamo come simbolo ideale a rappresentare la Lombardia etnica (contrapposta al Triveneto, nonchè quella che fu Austria longobarda, il cui simbolo più importante a livello storico è il Leone di San Marco), assieme all’Aquila imperiale di retaggio latino-germanico. Del resto, il vessillo ducale dei Visconti è caratterizzato proprio da questi due simboli inquartati in una bandiera bianco-dorata, e recuperarlo è sicuramente un degno tributo nei confronti di coloro che hanno gettato le basi della moderna Lombardia e che hanno fatto di Milano il suo capoluogo nonché la città precipua del Nord Italia.

Un’insegna migliore, senza dubbio, dell’attuale bandiera verde con rosa camuna bianca, che banalizza un nobilissimo simbolo camuno meglio rappresentato, secondo noi, dallo svastika che  riprende una reale incisione rupestre (Carpene) di chiaro retaggio solare indoeuropeo.

Pol Sizz

Lissander Cavall

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La situazione geolinguistica

Geolinguistica lombarda

Situazione linguistica della Lombardia etnica.

Dopo aver tracciato un semplice quadro introduttivo sulla questione linguistica lombarda, procediamo ora all’approfondimento delineando un’essenziale analisi delle lingue attualmente parlate in Lombardia.

Premettiamo che, dal punto di vista accademico, le ricerche effettuate sulle suddette lingue risentono indubbiamente dei numerosi filtri di natura politica che il sistema italiano sviluppa per cercare di sotterrare l’identità lombarda e delle altre popolazioni cisalpine.

Ma lasciando da parte le ragionevoli critiche che si potrebbero muovere a certi linguisti italiani, entriamo nella più interessante trattazione tecnica delineando una visione d’insieme della situazione geolinguistica della Lombardia.

Naturalmente, la principale famiglia linguistica autoctona parlata in Lombardia è il lombardo, che dopotutto sarebbe il gallo-italico “puro” ovvero il galloromanzo cisalpino; sistema linguistico che appartiene alla più grande famiglia delle lingue romanze, ossia lingue sviluppatesi dal latino volgare che era parlato in molte parti dell’immenso impero romano, declinato sulla base dei sostrati prelatini.

Per la precisione, il lombardo fa parte della sottofamiglia delle lingue romanze occidentali, la quale comprende a sua volta il gruppo iberoromanzo e il gruppo galloromanzo. Quest’ultimo è infine suddiviso in sottogruppo settentrionale, sottogruppo occitano e sottogruppo cisalpino (sottogruppo cui il lombardo appartiene, assieme a retoromanzo e veneto).

Giusto per chiarire le idee a chi è poco ferrato in linguistica, ricordiamo a questo punto che l’italiano standard è una variante del toscano, lingua appartenente alla sottofamiglia romanza orientale, la quale comprende il gruppo italo-romanzo e il gruppo balcano-romanzo.

Tale precisazione è da considerarsi doverosa perché moltissimi Lombardi sono tuttora convinti (ovviamente per via della disinformazione portata avanti dallo stato-apparato italiano) che le proprie lingue siano dialetti dell’italiano.

Ma come sarebbe possibile ciò se i due idiomi in realtà non fanno neppure parte della medesima sottofamiglia?

In verità, è sufficiente possedere un minimo senso critico per intuire che pure la linguistica sia stata strumentalizzata per cercare di legittimare uno stato senza Nazione come la Repubblica Italiana nata 70 anni fa.

Chiusa la parentesi sui rapporti tra il toscano e il lombardo, cerchiamo ora di definire lo sviluppo storico e, successivamente, l’estensione della lingua lombarda (lingua intesa come sistema linguistico gallo-italico, si capisce, non essendoci una precisa koiné pan-lombarda).

Durante i secoli della dominazione romana, le popolazioni celtiche che occupavano il bacino imbrifero padano appresero lentamente il latino volgare che veniva quotidianamente parlato dai commercianti e dai legionari.

In seguito, l’invasione longobarda (in misura minore quella gota) arricchì lo scadente latino che parlavano i nostri avi con nuove forme lessicali, sintattiche, grammaticali e fonetiche che, nel giro di qualche secolo, diedero origine alla primitiva lingua lombarda.

A livello scientifico, si usa perciò dire che il lombardo è una lingua romanza occidentale (cisalpina) con sostrato celtico e superstrato longobardo.

Non ci vuole molto a intuire che la definizione linguistica di lombardo è strettamente collegata alla definizione etnica di Lombardi: popolazioni cisalpine di origine celtica su cui si è innestata una certa componente gota ma soprattutto longobarda.

Queste due definizioni fondamentali ci consentono di delineare precisamente i confini linguistici della Lombardia (etnica): piemontese, insubrico, orobico, emiliano sono infatti gli unici idiomi romanzi con sostrato celtico e superstrato longobardo e, di conseguenza, gli idiomi da considerarsi lombardi.

Possiamo perciò rispondere ad alcune delle ingenue domande che spesso riceviamo: perché la Liguria non è Lombardia? Perché la Romagna non è Lombardia? Perché Bologna e Ferrara non sono Lombardia? Perché la Lunigiana non è Lombardia?

Oltre al fatto che il sostrato celtico è presente solo nella lingua ligure e non nell’etnia ligure, bisogna ricordarsi che la Liguria è stata sì conquistata (tardivamente) dai Longobardi, ma il clima avverso alla popolazione germanica fece in modo che non vi fossero insediamenti dei medesimi in tale territorio.

Per quanto riguarda invece la Romagna, sanno anche i polli che deve il suo stesso nome al non essere stata mai conquistata e colonizzata dai Longobardi.

A differenza della vicina Romagna, il Bolognese e il Ferrarese furono sì conquistati da Liutprando nel 727, ma rimasero sotto il dominio longobardo per talmente poco tempo (nemmeno cinquant’anni) da non consentire l’innesto di un superstrato longobardo. E questo anche se bolognese e ferrarese sono certo più gallo-italici del romagnolo, considerando che il ferrarese è prossimo al mantovano e il bolognese è a metà strada tra lombardo e romagnolo.

La Lunigiana ha invece ricevuto un considerevole apporto longobardo sia a livello etnico che linguistico, ma non ha il sostrato etnico celtico (problema speculare alla Romagna). Per tale ragione la vallata apuana non può essere parte della Lombardia etnica.

Per questi motivi dunque considerare i vernacoli romagnoli e liguri come lombardi non sarebbe esatto, però considerando che essi comunque facciano parte appieno del sottogruppo gallo-italico, non sarebbe un errore grossolano considerarli come delle propaggini del sistema linguistico lombardo, anche perchè teniamo comunque a mente che il ligure risente di parecchio degli influssi piemontesi e occitani (un esempio sono le vocali turbate), mentre il romagnolo presenta diverse affinità con i dialetti emilani centro-orientali, così come il ferrarese presenta somiglianze con il mantovano. In poche parole il termine “lingue lombarde” può benissimo essere inteso per “lingue gallo-italiche.

Chi ha visionato attentamente le nostre cartine avrà certamente intuito che la Lombardia etnica che proponiamo non coincide esattamente con la Lombardia linguistica.

In effetti, durante lo studio effettuato in questi anni, si è ritenuto opportuno inglobare nella Lombardia alcuni territori popolati da minoranze linguistiche che per questioni storiche, geografiche e culturali starebbero meglio con noi Lombardi.

Per la precisione, le minoranze linguistiche che, previa loro approvazione, dovrebbero appartenere a un ipotetico organismo politico lombardo sono le seguenti:

– Le sette vallate provenzali delle Alpi occidentali: sebbene non siano state occupate dai Longobardi e siano linguisticamente provenzali, le valli occitane possono per ragioni storiche e geografiche essere parti della Lombardia.

– Le vallate franco-provenzali delle Alpi occidentali: sebbene non siano state occupate dai Longobardi e siano linguisticamente franco-provenzali, le valli arpitane possono per ragioni storiche e geografiche essere parti della Lombardia.

– La fascia ligure al di sopra dello spartiacque appenninico: nonostante parlino dialetti di transizione tra lombardo e ligure, la fascia ligure può per ragioni storiche, geografiche e culturali essere parte della Lombardia.

– Le comunità walser delle Alpi Lepontine: sebbene siano etnicamente, linguisticamente e culturalmente differenti, le comunità walser della Valsesia e dell’Ossola possono per ragioni geografiche essere parte della Lombardia.

Fermo restando che tutte le quattro minoranze etno-linguistiche elencate godrebbero delle opportune forme di tutela necessarie a una giusta autodeterminazione, dovrebbe risultare ovvio come l’appartenenza all’ipotetico organismo politico lombardo rappresenti anche una questione di “comodità” delle minoranze stesse.

Non ci vuole infatti un enorme sforzo logico per intuire che per un abitante di Lanzo è più comodo e meno dispendioso stare sotto la giurisdizione di Torino che sotto quella di Chambéry.

Discorso che vale anche per le altre tre minoranze linguistiche.

Adalbert Ronchee

Pol Sizz

Lissander Cavall

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La questione linguistica lombarda

Uno dei problemi fondamentali che potrebbe affrontare la Lombardia etnica federale è la questione linguistica.

Considerata l’inesistenza di una koiné1 lombarda, sarà sicuramente palese come, al momento, il problema non solo appaia di difficile soluzione, ma si presti allo sviluppo di proposte risolutive differenti.

Tale evidenza va a nostro parere ricercata nell’elevato grado di differenziazione che con il tempo si è creato all’interno delle numerose loquele lombarde.

Sarebbe infatti sciocco non riconoscere che la soggezione a differenti dominazioni straniere ha inevitabilmente comportato lo sviluppo di un elevato grado di differenziazione dei vari vernacoli parlati in Lombardia.

Ma se da una parte ciò rappresenta un bene poiché si tratta di un vastissimo patrimonio culturale importante per lo studio delle nostre origini e della nostra storia, dall’altra è innegabile che la peculiare situazione linguistica lombarda potrebbe agli occhi di molti “giustificare” quelle che non sono altro che deleterie posizioni campanilistiche.

Per carità, una moderata dose di campanilismo può anche essere desiderabile, ma mettersi a reclamare la creazione di pseudo-Liechtenstein per ripugnanti ambizioni economiche o strani complessi egocentrici supera abbondantemente i limiti del ridicolo.

Ed è anche nell’intenzione di evitare dannose beghe tra conterranei che abbiamo sviluppato quella che, a nostro avviso, è la soluzione migliore alla questione linguistica che dovrebbero adottare i Lombardi (e conseguentemente un futuro organismo politico lombardo).

Entriamo ora nel dettaglio analizzando quella che è una delle principali esigenze di un qualsiasi popolo: un linguaggio per la reciproca comprensione.

Non serve certamente un particolare titolo di studio per intuire che, se ogni Lombardo utilizzasse il vernacolo casalingo per redigere, ad esempio, un semplice passaggio di proprietà, si verrebbe a creare una situazione di caos tale da impedire moltissimi scambi (anche informativi) tra gli stessi Lombardi.

È anche vero che tutti i dialetti lombardi sono degni di tutela e ogni Lombardo ha il diritto di tramandare il proprio idioma alle successive generazioni, preferibilmente anche tramite l’ausilio delle istituzioni.

Come risolvere di conseguenza questo trade-off tra la necessità di una comunicazione agevole e la necessità di una tutela della propria loquela?

Dovrebbe essere palese che il compromesso migliore stia chiaramente nell’elezione di un particolare idioma al rango di koiné (e poi a lingua nazionale2 di un futuro stato etnofederale italiano) sviluppando contemporaneamente efficaci strumenti di tutela delle varianti locali.

Ciò comporta naturalmente un ulteriore problema da risolvere: che loquela andrebbe scelta come koiné lombarda?

La pratica suggerisce tre essenziali modalità di soluzione del rilevante quesito.

1) Elezione di un dialetto a koiné: un particolare dialetto viene scelto per motivazioni di diversa natura come il più opportuno nel rivestire il ruolo di koiné. Sarebbe il caso, ad esempio, del (volgare) fiorentino letterario trecentesco che, per il prestigio datogli da alcuni suoi poeti, fu scelto nel Cinquecento come lingua letteraria della regione geografica italiana e anche, in rivalità con il francese, della Lombardia e delle Venezie.

2) Creazione ex novo di una koiné: una ristretta cerchia di persone competenti, come una commissione composta da linguisti esperti, sviluppa “a tavolino” un idioma che racchiuda elementi comuni appartenenti a tutte le varianti della lingua in oggetto e che possa rivestire il ruolo di koiné. È il relativamente recente caso del romancio nei Grigioni svizzeri, dove negli anni ‘80 del secolo scorso la Lia Rumantscha ha sviluppato il Rumantsch Grischun, un nuovo idioma basato sulle 5 diverse varianti del romancio.

3) Adozione di una “lingua franca”: si elegge al ruolo di koiné una loquela con un affermato prestigio e una completa codificazione. Sarebbe un po’ il caso della Confederazione Elvetica, dove sono state scelte come lingue ufficiali delle tre principali componenti etniche (alemanna, franco-provenzale, lombarda) tre rispettive lingue letterarie prestigiose (tedesco standard, francese standard, italiano standard).

L’ultima modalità esposta viene esclusa per l’aperto conflitto con i principi basilari dell’etnonazionalismo, e perché comunque l’italiano in Lombardia è ormai radicato da secoli e rappresenta la lingua dello stato italiano, lingua nata in Toscana e non in Pianura Padana.

Non ci vuole molto per cogliere che la soluzione migliore per la situazione lombarda è probabilmente una doppia applicazione della prima modalità.

Considerata l’elevata differenziazione del lombardo è infatti praticamente impensabile mettersi a creare una koiné basandosi su centinaia di differenti dialetti.

Per questo riteniamo che la soluzione migliore per il caso lombardo sia l’elezione a koinédel milanese, ovviamente depurato dai forestierismi degli ultimi secoli.

Sosteniamo ciò poiché, oltre a vantare una discreta letteratura moderna e una buona codificazione, il milanese ha la cruciale caratteristica di essere la loquela mediamente più comprensibile per i Lombardi.

Pregio di grande importanza se si considera che il compito primario che dovrebbe svolgere sarebbe quello di consentire una semplice comunicazione tra i Lombardi.

Ma se l’elezione di un dialetto a koiné è, di fatto, una scelta obbligata per quanto riguarda la lingua di comunicazione tra tutti i Lombardi, discorso diverso meritano le varianti locali.

Questo essenzialmente perché il concetto stesso di “variante locale” può avere differenti scale di applicazione.

Per evitare di dilungarci troppo, lasciamo però da parte tutto il dibattito legato alla migliore scala di focalizzazione linguistica e ci limitiamo a dire che, secondo noi, con la definizione “variante locale” vada inteso un insieme di parlate fortemente intercomprensibili.

Nel caso lombardo, le varianti locali coinciderebbero grossomodo con le parlate delle aree geografiche che nelle nostre cartine definiamo come distretti (per esempio, il canton Milano è diviso nei distretti di Milano, Monza, Busto Arsizio, Pavia e Lodi).

Per chi ha visto le succitate mappe, è facile intuire che la relativamente bassa variabilità linguistica dei distretti consente eventuali creazioni ex novo di koiné.

Se sia meglio scegliere l’elezione di un dialetto a koiné anziché la creazione ex novo, si tratta di una decisione che andrà approfondita e valutata caso per caso.

Adalbert Roncari

1 In questo contesto, il termine koiné va naturalmente inteso come la versione di una lingua che, per motivazioni di diversa natura, è comunemente accettata da un’ampia scala di locutori, in contrapposizione alle varianti locali.

2 Teniamo a precisare che, sebbene siano sovente presi come sinonimi, il concetto di “lingua nazionale” è ben distinto da quello di “lingua ufficiale”. La lingua ufficiale è infatti l’idioma che uno stato adotta legalmente per la produzione dei propri documenti ufficiali su tutto il suo territorio, mentre una lingua nazionale è una lingua riconosciuta e tutelata da uno stato solamente in ambiti territoriali limitati. Un ottimo esempio è dato dal romancio, che in Svizzera è lingua nazionale, ma non lingua ufficiale.

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Lombardo, uccidi il borghese che c’è in te!

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Talvolta ci capita di imbatterci in bislacchi individui che hanno l’intelletto di darci dei “fascio-terroni” solo per il fatto che abbiamo recentemente cambiato la nostra opinione sull’Italia e per il fatto che abbiamo messo da parte l’indipendentismo, pur non rinnegando il nostro nazionalismo lombardo. Innanzitutto si vuole ancora precisare che qui nessuno di punto in bianco crede nei retorici Fratelli d’Italia dalle Alpi alla Sicilia, nel Tricolore e tantomeno nell’odierna Italia repubblicana. Siamo tra i primi ad evidenziare la sensibile differenza etnica e culturale che c’è tra i (gran)lombardi e gli italiani peninsulari, ausonici e siciliani in primis. Proprio per questo difenderemo sempre a spada tratta tutte le peculiarità dei popoli alpino-padani, comprese quelle che li distinguono dal resto dell’Italia e li avvicinano alle nazioni mitteleuropee, e  condanniamo l’esodo meridionale nelle nostre terre avvenuto negli ultimi decenni.

Tuttavia, guardando la questione con un minimo di razionalità appare piuttosto esagerato e riduttivo definire i settentrionali solo celto-germanici (come se fossimo affini agli inglesi o agli scandinavi, sempre più sostituiti dagli afro-asiatici tra l’altro) e i meridionali come arabi cristiani, dando la colpa di tutti i nostri problemi a quest’ultimi. Così come appare disonesto e anche ignorante liquidare il termine Italia come un’invenzione di Garibaldi e Cavour, magari accostandolo ai servizi scadenti oppure all’inglese maccheronico di Renzi. Noi, dal canto nostro continuiamo a sostenere che i granlombardi (insubrici, piemontesi, liguri, lombardi cispadani, romagnoli, orobici, veneti, friulani ecc.) rappresentino un gruppo etnico a se stante e difatti non vediamo l’Italia come nazione monolitica, ma come appunto una macroregione europea (così come lo sono l’Iberia, i Balcani, la Britannia ecc) composta da etno-nazioni accomunate da una serie di fattori storici e culturali che non si possono negare.

 Ci sono anche quelli che fanno gli indipendentisti, volendo per esempio una Regione Lombardia (entità creata da questo stato) indipendente esclusivamente per questioni economiche, trascurando del tutto i problemi migratori e la delombardizzazione culturale della Lombardia stessa, problema a nostro avviso più grave. L’Italia stessa, il nord in particolare, è sempre più in declino perchè l’elemento etnico alpino-padano granlombardo è in costante diminuzione ed è completamente inutile auspicare l’autodeterminazione finchè non si capisce questa realtà.  Infatti la verità è che gran parte di queste persone preferirebbe semplicemente vedere un nord annesso alla Svizzera o all’Austria (si tratta di gente che condanna l’Italia in quanto multietnica ma non si fa nessun problema ad esaltare l’impero asburgico) piuttosto che darsi da fare per l’autodeterminazione della propria terra. Ed ecco che qui salta fuori non la voglia di libertà, ma semplicemente il desiderio di scegliersi il padrone migliore, illudendosi del fatto che agli stranieri potrebbe davvero interessare risolvere i nostri problemi. Un esempio analogo è il Canton Ticino, angolo di Lombardia sotto la Svizzera, stato che almeno per ora da un punto di vista economico e sociale funziona si meglio dell’Italia, ma che non può essere definita in nessun modo una nazione. In Ticino è diffusa l’avversione nei confronti non solo degli italiani centro-meridionali ma anche nei confronti dei lombardi amministrati dallo stato italiano. Lombardi che hanno i loro stessi cognomi, i loro stessi dialetti, ritenuti però inferiori solo perchè lo stato italiano gode di servizi peggiori di quelli svizzeri. Nonostante questo però, la lingua di Dante non la mollano, dagli svizzeri tedeschi  e francesi vengono comunque visti come svizzeri di serie b, e la lingua lombarda non gode di nessuna tutela e pure li i ticinesi stessi sono sempre più sostituiti dai meridionali e dagli extraeuropei.

Sorge spontanea una domanda: per quale motivo noi, granlombardi, cisalpini, alpino-padani dobbiamo ritenerci inferiori per affidare le nostre sorti e le nostre terre a genti forestiere? Badate bene che quando si sente dire “meglio stare sotto gli austriaci che con i terroni”, vengono subito in mente coloro che giustificano la presenza di basi militari americane in Europa dicendo “loro ci proteggono, meglio loro dei nazisti e dei sovietici”.  Colui che tra la libertà e la sicurezza sceglie quest’ultima, dimostra di non meritarle entrambi. Se guardiamo la storia notiamo facilmente che nei casi in cui i nostri avi unirono le loro forze per il bene comune hanno dato vita a vere potenze, con cui dovettero fare i conti anche gli stati europei più potenti. Pensiamo alla Lega Lombarda che frenò lo strapotere del Barbarossa, alla Serenissima che unì gli sforzi di veneti e anche dei lombardi per creare una potenza marina che contribuì a frenare l’avanzata ottomana in Europa, al Piemonte per molti secoli saggiamente amministrato dai Savoia grazie ai quali nemmeno i francesi riuscirono a sfondare. Anche il Risorgimento può piacere o no, ma fu comunque frutto dell’intraprendenza lombarda, evento offuscato dallo stato centralista italiano e dalla graduale rinuncia dei settentrionali nel giocare un ruolo fondamentale nella RI. Tutte le volte invece in cui abbiamo preferito il campanilismo e quindi  gli stranieri ai nostri fratelli, non abbiamo fatto altro che finire in situazioni penose. Pensiamo alle condizioni in cui versava Milano sotto il dominio spagnolo, ai veneti istriani e dalmati perseguitati durante l’impero austro-ungarico ed infine ad oggi, quando l’unica minoranza a non contare niente sul nostro territorio sono proprio i popoli alpino-padani.

Senza la dignità e l’orgoglio etnico non si può sperare in nulla di buono ed è anche per questo che l’indipendentismo non è mai stata una nostra priorità: per noi viene prima il Popolo, la nostra Terra e la nostra realizzazione.

 

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Ne PD ne Lega Nord. Siamo lombardi.

Ultimamente nella “Regione Lombardia” vi è un acceso dibattito tra la Lega Nord e il PD sull’ufficializzazione, la difesa e la diffusione della lingua lombarda, in cui la prima si erge a paladino difensore delle culture locali e il secondo a sostenitore della democrazia, del progresso, della fratellanza universale intesi come ideologia secondo la quale la difesa di qualsiasi lingua (specie per quel che riguarda le cosidette lingue minoritarie in Europa) e rettaggio culturale europeo sarebbe un sintomo di chiusura mentale, di anacronismo se non adirittura di Medioevo. In poche parole cose che dovrebbero ormai essere superate e che oggi sarebbero strumentalizzate per motivi politici. Anche se purtroppo ,per colpa della disinformazione perpetrata dai media, queste baggianate sono sostenute da molte forze politiche e da gran parte della gente comune, esse lasciano il tempo che trovano dato che la vera ignoranza e chiusura mentale consiste nell’associare una lingua locale ad un partito politico e sostenere che le loquele lombarde siano solo inutili dialetti italiani quando oltre ad avere caratteristiche linguistiche che lo distinguono nettamente dall’italiano( il quale ricordiamo è una variante di dialetto toscano), siano conosciute insieme al veneto come “lingue in pericolo d’estinzione” dall’UNESCO, dall’ ISO e dal consiglio d’Europa (anche se non c’è bisogno di loro per capirlo) e hanno anche una ricca letteratura storica che risale al XIII secolo. Qui non si vuole offendere la lingua italiana, ma il modo con cui le lingue granlombarde vengano sempre denigrate non può farci restare neutrali. Ridicola è anche l’affermazione secondo la quale la tutela del lombardo contrastasse con la conoscenza dell’inglese, visto che conoscere una lingua non impedisce di conoscerne delle altre.

Oltre a questo non poteva anche mancare la tesi secondo la quale la tutela della lingua lombarda richiederebbe troppi soldi, cioè 300000 euro. A parte il fatto che in confronto al residuo fiscale e agli sprechi perpetrati dallo stato italiano questi soldi sono degli spiccioli, sentire il PD lamentarsi degli sprechi di soldi fa sorridere. Come se la tutela della lingua lombarda danneggiasse l’economia più di quanto l’abbiano fatti gli scandali di Banca Etruria e dei Monte di Paschi di Siena. Inoltre è sempre il PD e altre forze politiche ideologicamente affini, che propongono di spendere denaro e altre risorse per iniziative di discutibile utilità come la costruzione di nuove moschee, festival della cultura Rom ecc, però appena si parla di identità lombarda o veneta arrivano subito le accuse di razzismo e di strumentalizzazione politica. A prima vista può sembrare un esagerazione, ma questi soggetti non si dimostrano tanto diversi dall’ISIS visto che pure loro distruggono testimonianze di antica cultura scomoda per le loro ideologie fanatiche, irrazionali e cosmopolite. Oggi discriminano la lingua lombarda, domani magari proporranno di abbttere il Duomo di Milano per farci sopra un centro commerciale.

Per quel che riguarda la Lega Nord invece, nonostante il fatto che attualmente sia l’unica forza politica rilevante che si dedica a tale tematica va detto che in 30 anni di esistenza avrebbe comunque potuto fare in modo che sia il lombardo che il veneto venissero riconosciute come lingue, invece di continuarli a chiamare “dialetti” , facendo il gioco dei suoi dettratori.

Un altro concetto importante da diffondere è quello di lingue lombarde e di Lombardia, l’estensione dei quali non si limita certo all’odierna regione Lombardia ma comprende pure il Piemonte, l’Emilia e il Canton Ticino con le vallate lombardofone del Canton Grigioni, oggi facenti parte della Svizzera. Infine la lingua deve essere un fattore prima culturale che politico, pertanto stimiamo e supportiamo coloro che pur essendo apolitici si impegnano al mantenere vive le loquele granlombarde. Queste attività per adesso sono ancora concentrate per lo più nell’ambito virtuale, ma il crescente interesse per queste attività ( a prova di ciò c’è la versione in insubrico, orobico, piemontese, emiliano e veneto di wikipedia) non può che essere una cosa positiva.

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La letteratura lombarda

Carlo_Porta

Con l’avvento dell’omologazione e della centralizzazione forzata prima nel Risorgimento e poi del Fascismo, le lingue lombarde, cosí come molte altre lingue parlate nell’allora Regno d’Italia, sono state man mano raffigurate come dei rozzi dialetti dell’italiano da eliminare il prima possibile per far sí che i territori di confine del regno fossero veri e propri baluardi contro i “nemici” transalpini. Nel passaggio alla Repubblica le cose non sono sostanzialmente cambiate e una delle scuse piú ridicole usate per cercare di ridicolizzare il lombardo, delegittimando cosí anche il nostro diritto a usarlo, si appella alla desueta definizione di lingua di origine ottocentesca: una lingua è un idioma codificato con propria letteratura storica.

In realtà, la motivazione proposta è veramente ridicola poiché il lombardo vanta una ricca letteratura storica che si sviluppa pienamente a partire dal Cinquecento, ma che affonda le sue radici in alcune opere in volgare del Duecento.

Andando a parlare di letteratura lombarda, va innanzitutto ricordato che, come nel resto del mondo, la capacità di leggere e scrivere era un’abilità di cui si potevano vantare solo le classi sociali più elevate, le quali vivevano per lo piú nelle grandi città. Per tale ragione la letteratura lombarda si è sviluppata sui due principali poli culturali e politici della Lombardia, cioè Milano e Torino, dando cosí origine a due correnti letterarie (nonché a due grafie classiche) piuttosto separate. Se Torino era il polo accentratore solo per la Lombardia occidentale, Milano ha rappresentato il polo per la Lombardia centrale, orientale e buona parte di quella meridionale. Per quanto riguarda le basi storiche della letteratura milanese, non c’è accordo (tanto per cambiare!) sull’opera o sullo scrittore che potrebbe essere considerato come il riferimento iniziale, anche se molti ritengono il “Sermon divin” di Pietro da Barsegapè la prima pietra miliare della letteratura milanese.

Ricalcando il filone didattico e religioso del Basso Medioevo, l’opera in questione non è altro che un poema popolare risalente al 1264 di poco più di 2400 versi dove si narrano, con toni critici verso la ricchezza e la superbia, le più importanti vicende bibliche. Per altri studiosi bisogna invece attendere giusto qualche anno più tardi con gli scritti di Bonvesin de Laripa (o De La Riva) tra cui spicca il “Libro de le tre Scritture” del 1274: un componimento diviso in tre parti che sembra una sorta di anticipazione della Commedia dantesca.

I lavori di Bersegapè o di de Laripa possono essere sicuramente considerati come le prime opere della letteratura milanese, ma è tuttavia azzardato definirle opere in milanese poiché l’assenza di alcune peculiarità del lombardo (tra cui le vocali anteriori arrotondate e la negazione postverbale) ne evidenziano la natura di volgare scadente. L’uso scritto del volgare lombardo riprende vigore con la signoria dei Visconti, ma per parlare di vera e propria letteratura in milanese bisogna attendere la risoluzione del problema della grafia.

Nel 1606 Giovanni Ambrogio Biffi tenta una prima codifica con il “Prissian de Milan de la parnonzia milanesa”, dove cerca di risolvere il problema delle vocali lunghe e brevi e propone il dittongo “ou” per rappresentare la vocale anteriore arrotondata semichiusa [ø] e semiaperta [œ]. La codifica definitiva avviene però a fine secolo quando Carlo Maria Maggi introduce il trittongo “oeu” per rappresentare i fonemi [ø] [œ] fondando finalmente la grafia milanese classica. Grazie anche alla sua notevole produzione, che spazia dalle poesie alle commedie, come “Il manco male”, “Il Barone di Birbanza”, “I consigli di Meneghino”, “Il falso filosofo”, “Il Concorso de’ Meneghini”, il Maggi può perciò essere considerato il padre della letteratura milanese. Fu inoltre Carlo Maria Maggi a introdurre la maschera di “Meneghin”, l’incarnazione del popolo milanese: umile, onesto, saggio, forte nelle avversità, lavoratore sensibile e generoso.

Il Settecento vede un’esplosione della letteratura in milanese con poeti come Domenico Balestrieri, Carl’Antonio Tanzi, Girolamo Birago, Giuseppe Parini, Pietro Verri, Francesco Girolamo Corio e sopra a tutti Carlo Porta. Carlo Porta è sicuramente il più grande poeta in milanese e le sue opere vanno a colpire l’ipocrisia religiosa del tempo (Fraa Zenever, Fraa diodatt), a descrivere le figure popolari (Desgrazzi de Giovannin Bongee, La Ninetta del Verzee) e a esporre le sue idee politiche (Paracar che scappee de Lombardia, E daj con sto chez-nous ma sanguanon), cui si aggiungono dei sonetti in difesa del milanese (I paroll d’on linguagg car sur Gorell) e di Milano (El sarà vera fors quell ch’el dis lu). Il Porta indica il milanese come “lengua del minga e del comè” e designa come scuola della vera lingua del popolo il Verzee, il mercato della verdura di Milano. Nell’Ottocento nascono numerosi giornali in milanese, ma sicuramente è doveroso segnalare i dizionari: il Cappelletti, il Banfi, l’Arrighi, l’Angiolini e l’opera monumentale del Cherubini.

Con l’età contemporanea, cadono purtroppo in disgrazia sia la letteratura sia la lingua parlata e i pochi contributi in milanese, come quelli di Delio Tessa e Giovanni Barrella, si riempiono di patetici toscanismi.

Nell’area di influenza del milanese va tuttavia citata la letteratura bergamasca: degne di nota sono la traduzione seicentesca dell’Orlando furioso di Alberto Vanghetti e gli scritti settecenteschi dell’abate Giuseppe Rota.

Discorso particolare necessita invece la letteratura occidentale. Gli importanti traffici commerciali con la Provenza, e la storia politica che ha portato il Piemonte a essere sotto l’amministrazione savoiarda e non con il resto della Lombardia, hanno difatti rappresentato elementi di peculiarità nello sviluppo sia del lombardo occidentale che della sua letteratura. Come per il milanese, vi è dibattito su quale possa essere considerato come il primo documento della letteratura piemontese, ma la molti ritengono che i “Sermoni Subalpini”, una raccolta di ventidue omelie complete risalenti alla seconda metà del XII secolo, siano la prima opera in volgare occidentale. In questo periodo la Lombardia occidentale inizia inoltre a subire l’influsso della poesia provenzale tanto che, accanto ai trovatori provenzali, ci sono anche celebri piemontesi, come Nicoletto da Torino, e nelle vallate alpine il provenzale si afferma come lingua parlata dal popolo. Nei secoli successivi vi è una lenta evoluzione del volgare che diventa piemontese solamente all’inizio del Cinquecento con le opere di Gian Giorgio Alione di Asti. La raccolta piú importante è sicuramente la “Opera Iocunda no. D Johanis Georgii Alioni astensis – metro maccaronico materno et gallico composita” nel secondo decennio del secolo citato che contiene scritti sia in piemontese (tra cui i “zeu da carlever”) sia in francese.

Nel diciassettesimo secolo la lingua è ormai matura e verso la fine il Marchese Carlo Giambattista Tana di Entraque compone la celebre opera teatrale “Ël Cont Piolèt”, che viene subito rappresentata con molto successo ma che sarà stampata solo alla fine del secolo successivo. Verso la fine del Settecento il piemontese diventa oggetto di studio e nel 1783 nasce la prima “Grammatica piemontese” grazie al medico Maurizio Pipino (autore anche di un vocabolario quadrilingue) che la dedica alla principessa di Piemonte, di origine francese e desiderosa di imparare la lingua locale: a differenza del resto della Lombardia, il Piemonte si è difatti affermato come stato e quindi l’uso ufficiale del piemontese diventa uno strumento di legittimazione del dominio sabaudo. Con l’Ottocento si forma il teatro piemontese e l’esponente più noto è Vittorio Bersezio: tra i suoi lavori vanno citati “La sedussion”, “La beneficenza” e il celebre “Le misérie ‘d mossù Travet”. Come per il milanese, l’Ottocento è però anche il secolo dei giornali in lingua locale e dei dizionari: sono difatti editi il Capello, il Zalli, il Gavuzzi e il grandioso Conte Vittorio di Sant’Albino. Anche per il piemontese l’età contemporanea riserva la medesima storia delle altre lingue lombarde e sia la letteratura sia la lingua parlata sono velocemente abbandonate.

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La lingua lombarda: la morfologia

Secondo una moderna accezione del termine, la morfologia è l’insieme delle forme assunte dalle parole al variare di fattori come numero, genere, modo, tempo e persona. In termini più pratici, la morfologia non sarebbe altro che l’insieme delle regole di flessione delle parole, come la coniugazione per i verbi e la declinazione dei nomi o degli aggettivi.

Sebbene vi siano comunque numerosi principi comuni a tutti quanti i suoi diversi dialetti, nel caso del lombardo si è nel tempo sviluppata una significativa differenziazione nella morfologia, tanto che si può tranquillamente considerare l’aspetto della lingua che varia maggiormente. Al fine di non dilungare eccessivamente la trattazione, in questa sede ci limiteremo a considerare essenzialmente i tratti comuni del lombardo.

Per quanto riguarda la coniugazione dei verbi, una fondamentale caratteristica comune è l’inesistenza di un corrispettivo al perfectum latino, tempo verbale che nella maggior parte delle lingue romanze si è evoluto dando, ad esempio, origine al passato remoto dell’italiano, al passé simple del francese o all’indefinido dello spagnolo. Secondo alcuni studiosi, un corrispettivo al citato tempo verbale latino sarebbe in realtà esistito, ma decaduto definitivamente per disuso nel Settecento.

Considerando tuttavia che i testi scritti prima del diciottesimo secolo sono in realtà volgari palesemente latineggianti e che una distinzione tra passato perfetto e imperfetto non esiste nelle lingue germaniche, è molto più probabile che la perdita di questo tempo verbale sia avvenuta nell’alto medioevo grazie a Goti e Longobardi. E il fatto che nei testi anteriori al Seicento non vi sia traccia nemmeno delle vocali anteriori arrotondate (le cosiddette “vocali turbate”) convalida ulteriormente questa ipotesi. Rimanendo sempre nell’ambito delle coniugazioni, altro elemento di comunanza dei vari vernacoli lombardi, con l’eccezione di alcuni meridionali, è l’inesistenza del modo verbale gerundio. Per evidenziare la continuità dell’azione, in lombardo centrale e orientale è usata l’espressione “vess adree a” (milanese: “sont adree a mangià”), mentre in lombardo occidentale(piemontese) si utilizza l’espressione “esse ‘n camin che” (torinese: “Anté ch’it ses an camin ch’it vas?”). Ulteriore peculiarità nella flessione dei verbi riguarda l’imperativo negativo: mentre in italiano si forma con l’infinito del verbo, in tutti i dialetti lombardi si crea aggiungendo la negazione al verbo coniugato all’imperativo (milanese: “fa no inscì!”).

Il secondo interessante punto di analisi morfologica da affrontare è sicuramente dato dalla declinazione dei nomi e degli aggettivi. Un elemento di notevole interesse a tal riguardo è senza dubbio dato dal genere del plurale: se nel lombardo occidentale, meridionale e orientale esiste, come in italiano o in spagnolo, una netta distinzione tra il plurale maschile e il plurale femminile, nel lombardo centrale e nelle sue aree d’influenza il plurale è sempre privo di genere (italiano: “i Lombardi” – milanese: “i Lombard”, italiano: “le Lombarde” – milanese: “i Lombard”).

Considerato che nelle lingue romanze è presente, oltre che nel lombardo centrale, unicamente nel francese e che è largamente diffusa nelle lingue germaniche, questa peculiarità è sicuramente da considerarsi di origine germanica. Ma la distinzione tra il lombardo centrale e le altre varianti è determinante anche per la formazione del plurale: se, escludendo la perdita della “a” (milanese: “la sciresa” – “i scires”), nel lombardo centrale la maggior parte dei nomi e degli aggettivi rimane generalmente invariata (milanese: “el magatt” – “i magatt”), nelle altre varianti si seguono le regole di flessione tipiche dell’italiano (la “a” diventa “e” mentre la “o” diventa “i”). Oltre al comune passaggio da -ll a -i (milanese: “cavell” – “cavei”), interessanti eccezioni al precedente principio generale sono il passaggio dal suffisso -in al suffisso -itt nel lombardo centrale (milanese: “el buscin” – “i buscitt”) e il passaggio dal suffisso -t al suffisso -cc nel lombardo orientale (bergamasco: “andat” – “andacc”).

Altro elemento da notare è che, durante lo sviluppo dei vari dialetti lombardi, si è assistito a un generale processo di apocope che ha portato alla perdita, a seconda delle varianti, parziale o totale delle vocali finali atone latine con l’unica grossa eccezione della “a”, la vocale del femminile. Trattandosi di un fenomeno presente anche in altre lingue gallo-romanze, come il francese, l’occitano e il romancio, la perdita delle vocali finali atone può considerarsi una caratteristica di sicura origine celtica.

Sebbene non sia un aspetto che fa strettamente parte della morfologia, va poi evidenziato che un fenomeno, collegato all’apocope, molto presente in alcune varianti del lombardo è la sincope, cioè l’eliminazione di una lettera o di una sillaba all’interno della parola. Essendo presente nel francese, anche questo fenomeno, diffuso soprattutto nel lombardo occidentale e meridionale (latino: “pilare”, torinese: “plè”), può essere considerato di sicura origine celtica.

Infine, un’ulteriore caratteristica da evidenziare è l’assenza di una distinzione tra pronomi nominativi e accusativi: mentre nella maggior parte delle lingue romanze la detta distinzione è tuttora presente, in lombardo gli originali pronomi nominativi latini sono stati soppiantati da quelli accusativi (latino: “ego sum”, italiano “io sono”, milanese: “mi sont”).

Se l’apocope raggiunge il suo massimo in lombardo centrale, che oltre alla “a” mantiene unicamente la “i” in alcune parole dotte o tecniche (milanese: “offizi”), essa vede il suo minimo nel lombardo orientale, dove a causa della dominazione veneta è possibile trovare anche numerose “o” finali atone (bresciano: “gnaro”).

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La sintassi

Sebbene complessivamente non si differenzi molto dalle altre lingue romanze, a livello di sintassi, ossia dei modi con cui le parole sono accostate per formulare proposizioni e queste ultime sono collegate per formare periodi, il lombardo ha comunque sviluppato alcune piccole caratteristiche che lo contraddistinguono.

Per quanto riguarda il posizionamento Soggetto-Verbo-Oggetto, va detto che non si riscontrano grosse differenze: esattamente come in francese, italiano o spagnolo, tutte le varianti del lombardo utilizzano generalmente la tipologia Soggetto Verbo Oggetto (milanese: “mi pacci ona pomma”), con l’unica eccezione dell’utilizzo della tipologia Soggetto Oggetto Verbo (milanese: “mi la toeui”) quando è usato un pronome, direttamente o indirettamente, al posto dell’oggetto.

Discorso diverso va invece condotto su altri punti, come la negazione. La prima grossa differenza che si nota rispetto alle altre lingue neolatine, tra cui l’italiano, è difatti data dalla posizione della negazione: se nella maggior parte delle lingue romanze la negazione è rimasta preverbale come in latino (italiano: “non mi piace”), in lombardo la negazione è invece sempre postverbale, cioè dopo il verbo o l’ausiliare (milanese: “sont minga andaa”, torinese: “i l’hai nen mangià”, bergamasco: “adess lavore mia”, modenese: “a-n sun mia boun”). Rimanendo in ambito di negazione, va poi ricordato che in lombardo non è mai ammessa la combinazione di una negazione con un pronome negativo (italiano: “non c’è niente”, milanese: “gh’è nagott”), altra caratteristica presente nelle lingue germaniche.

Particolare elemento distintivo rispetto alle altre lingue romanze, ma diffuso anche nelle altre lingue galloromanze cisalpine (cioè veneto, romagnolo e friulano), è l’utilizzo del pronome personale rafforzativo, noto anche come pronome clitico (milanese: “lee la dis”, torinese: “mi i son”, bergamasco: “noter a’m va”, modenese: “me a son andèe”). La forma e la presenza di questi pronomi cambiano notevolmente da una variante all’altra: se nel lombardo centrale sono obbligatori solo per la seconda e la terza persona singolare, nel lombardo orientale sono obbligatori anche per la prima e la terza plurale (servono difatti a distinguere le voci verbali con medesima coniugazione), mentre nel lombardo occidentale e in quello meridionale lo sono per tutte quante le persone. Inoltre va aggiunto che un’interessante particolarità dei pronomi clitici è che, nelle frasi interrogative di alcuni dialetti, il soggetto clitico si sposta dopo il verbo formando una sorta di suffisso (bergamasco: “se dighel?”).

Un’ulteriore caratteristica tipica del lombardo è l’ampio uso del pronome “che” in situazioni del tutto inusuali per il toscano. Esso è infatti usato sia per rafforzare le espressioni (milanese: “chi che el dis”), sia per esprimere il secondo termine di paragone nelle proposizioni comparative (milanese: “quest liber l’è mei che quell”), sia per supportare alcune proposizioni affermative e interrogative (milanese: “quan che voo via”). In alcune varianti del lombardo sono poi molto frequenti i verbi seguiti da una preposizione o da un avverbio che ne modifica il significato. Ad esempio, in milanese il verbo “trà” (tirare, lanciare) può diventare “trà via” (gettare), “trà in pee” (inscenare), “trà insemma” (riunire), “trà sù” (vomitare), “trà giò” (buttar giù, demolire), “trà foeura” (rinvigorire). Essendo presente in lingue germaniche come il tedesco e l’inglese (basti pensare ai celebri “phrasal verbs” inglesi!), anche questo è un altro fenomeno linguistico che abbiamo sicuramente ereditato dai nostri avi germanici. Sebbene non sia diffusa tra tutti quanti i dialetti, un’altra peculiarità lombarda è infine l’uso dell’articolo determinativo abbinato ai nomi propri di persona (“la Giulia”, “el Carl”), altra caratteristica di possibile origine germanica, considerato che è presente anche nel linguaggio corrente del tedesco.

La presenza nelle varianti del lombardo di fenomeni sintattici tipici delle lingue germaniche, come la piú volte citata negazione postverbale, conferma quanto la germanizzazione della nostra terra sia stata determinante nello sviluppo delle nostre lingue.

Vuoi per ignoranza, vuoi per interesse, certi italianisti ottocenteschi in odore di massoneria hanno purtroppo minimizzato l’eredità germanica lombarda, esaltando invece all’inverosimile l’ovvia eredità romana. In questo incise anche il Fascismo, così come prima ancora il Manzoni stesso col suo ritratto a tinte fosche dell’epopea longobarda in Italia. Un’idea di stampo risorgimentale francamente assurda, visto che i Longobardi furono sul punto di riunire sotto un’unica corona l’Italia intera.

Ma naturalmente i problemi non finiscono qui. Come se non bastasse, l’esasperazione della latinità ha difatti portato i movimenti identitari che si sono sviluppati a partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso a contrapporle un’esaltazione estrema (e francamente pagliaccesca) delle nostre radici celtiche, sminuendo sempre la componente germanica della nostra identità. Non è del resto un mistero che le varie leghe settentrionali abbiano finito per sposare una certa retorica neoguelfa (o partigiana) germanofoba.

Ed è proprio questa lunga marginalizzazione che ha subito l’eredità germanica a spingerci a sottolineare il suo ruolo nel contesto lombardo.

Vogliamo infatti ricordare che l’eredità gota e longobarda, assieme a quella celto-ligure, rappresenta uno dei due principali fattori dell’unità etnica dei Lombardi.

Naturalmente, il voler rimarcare la nostra eredità germanica non comporta in alcun caso marginalizzare o sminuire la nostra eredità celtica, e tanto meno rinnegare la nostra fondamentale eredità culturale latina. Altrimenti commetteremmo lo stesso errore di chi ci ha preceduto.

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Il lessico lombardo

La forza mediatica raggiunta dall’italiano negli ultimi cent’anni ha, purtroppo, condotto a un progressivo abbandono (e a penose sostituzioni con neologismi toscaneggianti) dei molti lemmi lombardi di non immediata intercomprensibilità con l’italiano. Sebbene l’intensità dell’italianizzazione del lessico sia massima nei dialetti cittadini (come milanese e torinese), si tratta comunque di un preoccupante fenomeno che interessa tutti i dialetti del lombardo, dal modenese al ticinese e dal bresciano al cuneese.

La cosa risulta alquanto spiacevole poiché, oltre ai preponderanti vocaboli di etimologia latina, il lessico lombardo contiene comunque un cospicuo numero di lemmi di origine celtica e germanica e la maggioranza tra i lemmi abbandonati riguarda proprio quest’ultima categoria di parole. In particolare, bisogna ricordare che la conoscenza di questa categoria di termini è fondamentale per riuscire a comprendere l’origine storico-linguistica di molti toponimi lombardi.

Quando i romani conquistarono militarmente la Gallia Cisalpina, mantennero difatti la toponomastica che i nostri avi celtici e celto-liguri avevano creato (ad esempio, tutti i toponimi con suffisso in -ate e -ago o con suffisso in -ask e -aska) o che avevano ripreso dagli etruschi quando li scacciarono dalla bassa pianura padana. I conquistatori si limitarono quindi a latinizzare la già esistente toponomastica (Medhelan –Mediolanum, Bherg – Bergomum, Mutna – Mutina, Wehr Celt – Vercellae, etc.) e ad attribuire un nome alle poche nuove fondazioni che fecero (Placentia, Julia Taurinorum, Alba Pompeia, etc.). Con l’insediamento di popolazioni germaniche nell’alto medioevo si aggiunsero infine toponimi di origine gota e longobarda (basti pensare a tutti i toponimi contenenti le parole “fara” e “sala” o derivanti dal termine “gaggio” o terminanti con il suffisso -eng).

Tornando al lessico in senso stretto, il lessico lombardo si basa, come già accennato, essenzialmente su quello del latino. Per la precisione, esso si basa sul lessico del latino volgare che era parlato dai galli cisalpini: si trattava quindi di una loquela usata quasi esclusivamente nel parlato e che per ovvie esigenze di rapidità e univocità di comunicazione aveva un vocabolario semplice ed essenziale. Purtroppo il soppianto delle lingue celtiche anche a livello di loquela quotidiana fece sì che, ad eccezione della toponomastica, il lessico originario fosse quasi interamente sostituito da quello latino. Difatti, nel lombardo contemporaneo i lemmi di origine celtica sono oramai pochissimi e vengono sempre meno utilizzati: è il caso ad esempio di “arent” (da “renta”), di “rusca” (da “rusk”) o di “bricch” (da “brik”).

Naturalmente il volgare latino appreso dai nostri avi aveva già inglobato numerosi prestiti dal greco (ai tempi era comunque la più importante lingua commerciale) che sono entrati nel lessico lombardo: è il caso ad esempio del celebre “cadrega” (dal greco “kathedra”) e di altri termini come “carottola” (dal greco “karoton”).

Con l’arrivo dei goti e dei longobardi, a questa base essenzialmente latina si unirono numerosi nuovi lemmi, che, a differenza di quelli celtici, sono arrivati ai nostri giorni in misura nettamente maggiore. Abbiamo così vocaboli di origine longobarda come “bicer” (da “bikar”), scossà (da “skauz”) o “stracch” (da “strak”), e di origine gotica come “magatt” (da magaths), “biott” (da “blauths”) o “taccà” (da “thikkjan”).

Come per la maggior parte delle lingue europee, durante il resto del medioevo furono introdotte parole tecniche e scientifiche derivanti dall’arabo e parole religiose derivanti dall’ebraico, come “zuccher” (dall’arabo “sukkar”) o “sabbet” (dall’ebraico “sabbath”).

Per vedere un rilevante ampliamento del lessico lombardo bisogna attendere il sedicesimo secolo, quando il fiorentino inizia a imporsi come lingua letteraria e il francese come lingua diplomatica internazionale. Va inoltre notato che la separazione politica che, a cominciare dal medesimo secolo, ha iniziato ad affliggere i Lombardi comportò, tra le altre cose, anche a differenti sviluppi lessicali dei vari dialetti lombardi.

Se il dominio veneziano ha avuto influenze relativamente marginali su bergamasco e bresciano, il dominio spagnolo portò invece nel Ducato di Milano una minima quantità di nuovi termini, come “scarligà” (da “escarligar”) o “locch” (da “loco”), che entrò a far parte prima del milanese e successivamente dei dialetti confinanti, mentre il francese influenzava le parlate sotto il dominio sabaudo.

Per questioni principalmente culturali (sviluppo dell’illuminismo), dagli inizi del Settecento alla metà dell’Ottocento la lingua di maggiore influenza per il lombardo rimase comunque il francese, che prestò numerosi lemmi ai nostri vernacoli, come “buscion” (da “bouchon”) o “rebellott” (da “rebellion”).

In seguito la creazione del Regno d’Italia diede il via alla fortissima toscanizzazione che le 4 lingue lombarde stanno tuttora subendo.

L’evoluzione anche lessicale di una lingua è ovviamente una cosa normalissima che ha interessato, interessa e interesserà tutte le loquele del mondo, ma nel caso del lombardo è diventata talmente forte che, più che a un’evoluzione, si sta assistendo a un’involuzione della lingua.

Adalbert Ronchee

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