La lingua lombarda: la questione ortografica

Se dal punto di vista della fonetica, cioè dei suoni presenti in una lingua, il lombardo ha mantenuto pressoché inalterate alcune sue caratteristiche distintive (come le vocali anteriori arrotondate), dal punto di vista dell’ortografia, cioè della maniera con cui i suoni sono rappresentati graficamente, la questione è decisamente più complicata.
Prima di parlare a livello tecnico delle varie ortografie che sono state sviluppate per scrivere nelle quattro varianti del lombardo, ritengo perciò sia utile fare una piccola introduzione storica alla questione dell’ortografia.
Oltre ad aver favorito la seguente occupazione dei territori lombardi da parte di potenze forestiere come Francia, Spagna, Venezia e Austria nell’età moderna, va notato che la frammentazione politica, che ha caratterizzato i lombardi a cominciare dal dodicesimo secolo, ha avuto significativi risvolti anche sul piano linguistico. In particolare, il mancato sviluppo di una coscienza nazionale lombarda ha indubbiamente consentito che nel sedicesimo secolo fosse adottato, per il suo prestigio letterario, il fiorentino emendato come lingua ufficiale dei vari stati lombardi dell’epoca. Sebbene anche i ceti più abbienti abbiano continuato a parlare in lombardo almeno fino agli inizi del ventesimo secolo, l’italiano standard ha comunque influenzato i nostri vernacoli, oltre che a livello lessicale, anche su quello ortografico. L’ortografia toscana, che ha derivato le proprie regole ortografiche dalle regole di pronuncia ecclesiastica del latino, è difatti alla base delle ortografie storiche, come la grafia milanese classica e la grafia torinese classica, sia di quelle più recenti, come la grafia milanese moderna, la grafia ticinese, la grafia bergamasca, etc. Tuttavia, va notato che nel primo caso, cioè quello delle ortografie sviluppatesi tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, l’influenza del toscano è stata attenuata dall’introduzione di alcune regole ortografiche di quella che, oltre ad essere la lingua diplomatica del tempo, era la lingua letteraria più imparentata al lombardo: il francese.
La grafia milanese classica, che trova la sua origine con gli scritti seicenteschi dello scrittore meneghino Carlo Maria Maggi e l’affermazione con la poesia settecentesca del sempre milanese Carlo Porta, nacque proprio come intermedio tra quella italiana e quella francese. Essa unisce infatti regole caratteristiche dell’italiano (che derivano dalla pronuncia ecclesiastica del latino), come la pronuncia di “c” e “g” seguite da “i” ed “e” come consonanti affricate alveolari [tʃ] [dʒ] (citaa, gera), l’utilizzo del digramma “ci” e “gi” per rappresentare le consonanti appena accennate quando precedono “a”, “o” ed “u” (ciapà, giust), l’uso del digramma “ch” e “gh” per rappresentare le consonanti occlusive velari quando precedono “i” ed “e” (che, ghisa), la rappresentazione della consonante fricativa postalveolare sorda [ʃ] con i grafemi “sc” o “sci” (scior), a elementi tipici dell’ortografia francese, come l’uso del trigramma “oeu” per rappresentare la vocale anteriore semichiusa arrotondata [ø] (coeus) e la vocale anteriore semi-aperta arrotondata [œ] (bloeu), la pronuncia di “u” come vocale anteriore chiusa arrotondata [y] (mur), il raddoppio delle consonanti per indicare che la vocale precedente è aperta e breve. Naturalmente, oltre ai principi ortografici presi dalle menzionate lingue letterarie, vi sono anche alcune norme particolari dettate da peculiarità fonetiche del milanese, come la rappresentazione della vocale posteriore arrotondata chiusa [u] con la lettera “o” (nazion, vos), la rappresentazione della consonante fricativa postalveolare sonora [ʒ] con i grafemi “sg” o “sgi” (sgenee, ronsgia), la rappresentazione dei complessi consonantici [stʃ] [zdʒ] con i digrammi “s’c” e “s’g” o i trigrammi “s’ci” e “s’gi” (s’ceppà, s’giaff), l’uso della “h” per indicare la velarità di “c” e “g” in fine di parola (bianch, classegh).
L’altra ortografia storica lombarda è la grafia torinese classica, meglio nota come koiné piemontese, che ha avuto origine con i celebri “tòni” del Seicento e rappresenta un altro compromesso tra la grafia dell’italiano e quella del francese. Si differenzia dalla grafia milanese classica per pochissime divergenze, come l’uso del digramma “eu” al posto del trigramma “oeu”, l’uso del simbolo “ë” per rappresentare la vocale centrale media (chërde), l’utilizzo di “n-” per rappresentare la consonante nasale velare intervocalica (lun-a), la pronuncia solamente sonora di “z” (zanziva), nonché l’assenza dei digrammi “sc” e “sg” e dei trigrammi “sci” e “sgi”.
Purtroppo, la toscanizzazione e la meridionalizzazione coatta portate avanti prima dal fascismo e poi dalla repubblica, accompagnata dalla sciocca convinzione che i vernacoli lombardi fossero spregevoli linguaggi e dialetti da dimenticare per evitare problemi linguistici alle nuove generazioni, ha messo in grave pericolo la sopravvivenza di queste due grafie. Sebbene siano basate su regole ortografiche comuni al toscano, e quindi relativamente semplici da imparare per un italofono, l’ingenuo proposito di rendere le grafie storiche lombarde più “comprensibili” al lombardo medio ha condotto molti linguisti di dubbio valore a sviluppare grafie fonetiche (?) ancora più simili al toscano. Una di queste è la grafia milanese moderna: ideata dal Comitato per il Vocabolario Italiano-Milanese presieduto da Claudio Beretta, questa proposta di riforma avrebbe cercato di risolvere alcune grosse “problematiche” della grafia classica. In particolare, sarebbe stato affrontato il problema (?) della “o” della grafia classica: la “o” chiusa milanese è così diventata una “u” come in italiano (“vos” diventa  “vus”), mentre “u” e “oeu” sono invece diventate “ü” e “ö” come in tedesco. Inoltre, essa avrebbe cercato di risolvere anche il “problema” delle consonanti fricative alveolari rappresentando la sorda [s] con “s” (“mezz” diventa “mess”) e la sonora [z] con “ʃ” (“tosa” diventa “tuʃa”) e quello delle consonanti e vocali doppie mantenendole solo a fine di parola.
Altro esempio di grafia più toscaneggiante è quella ticinese, che come la milanese riformata cerca di rendere meno “difficile” il passaggio dall’italiano al lombardo tramite il cambiamento da “o” a “u”, l’utilizzo delle vocali con la dieresi (ü e ö) per rappresentare le vocali anteriori arrotondate e l’abolizione di tutte le consonanti doppie.
Un’ulteriore grafia toscanofila è quella bergamasca: sviluppata nella prima metà del ventesimo secolo dall’associazione folcloristica Ducato di Piazza Pontida, differisce dalla ticinese solamente per qualche dettaglio, come l’uso del trattino al posto dell’apostrofo nei digrammi “s’c” e “s’ci” e la pronuncia della “z” sempre come fricativa alveolare sonora (zét).
Un caso particolare è dato invece dalla situazione del parmigiano, del reggiano e del modenese: essendo varianti che si staccano in maniera abbastanza marcata dal resto del lombardo e mancando di una vera e propria letteratura storica, negli ultimi anni sono state proposte numerose grafie (spesso imbottite di numerosi segni diacritici) per questi dialetti, ma nessuna è riuscita ad affermarsi.

Come abbiamo spiegato negli articoli precedenti i vernacoli lombardi per quel che riguarda la grammatica e il lessico non sono molto diversi tra loro, essendo abbastanza intercomprensibili, però il fatto che ogni variante lombarda venga scritta con ortografie diverse rappresenta un problema non trascurabile causando confusione e a volte anche incomprensione. Siamo favorevolissimi ovviamente al conservare il lombardo insieme alle sue 4 varianti( insubrico, orobico-cenomane, piemontese e emiliano) le quali rappresentano una grande ricchezza per la nostra lingua. Tuttavia crediamo che l’ortografia migliore da adottare per tutte le parlate lombarde sia quella milanese classica, visto che ha una propria storia letteraria, è stata la più prestigiosa, non vi sono ridicole semplificazioni come nella grafia ticinese e soprattutto essendo il frutto di un compromesso tra la grafia toscana e la grafia francese rappresenta ciò che il lombardo è : un gruppo di lingue galloromanze cisalpine.
L’unica eccezzione potrebbe rappresentare il piemontese scritto con la grafia torinese classica la quale, pur essendo diversa da quella milanese solo per pochi particolari ha anche essa un proprio prestigio storico e letterario, senza contare che il Piemonte a differenza del resto della Lombardia etnica abbia conosciuto un lungo periodo di unità politica.
Del resto per quale motivo inventare dei nuovi tipi di ortografia se abbiamo già i nostri i quali hanno avuto modo di affermarsi storicamente.

Adalbert Ronchee
Lissander Cavall

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La fonetica lombarda

Dopo aver brevemente esposto le quattro principali varianti nonché le peculiarità e le loro caratteristiche più importanti a livello filologico, passiamo ora ad analizzare aspetti linguistici un po’ più tecnici come la fonetica, l’ortografia, il lessico, e la sintassi.
Per quanto riguarda il primo punto citato, cioè la fonetica, va innanzitutto detto che, come per tutti i vari aspetti linguistici del resto, i fonemi di base del lombardo sono essenzialmente quelli di origine latina. Su questa base fonetica si sono tuttavia innestate alcune tipiche vocali celto-germaniche, come ad esempio la vocale anteriore chiusa arrotondata [y] e la vocale anteriore semichiusa arrotondata [ø]. Vocali presenti nelle altre lingue gallo-romanze, come il francese, l’occitano o l’arpitano, ma non nelle lingue romanze meridionali, come quelle iberiche, italiche e balcaniche. Queste due vocali sono tuttavia solo due dei vari fonemi che distinguono il lombardo dall’italiano standard anche a livello fonetico. A parte qualche piccola eccezione, tutti i dialetti lombardi differiscono dal toscano per l’assenza della consonante laterale palatale [ʎ], della consonante affricata alveolare sonora [dz] e della consonante affricata alveolare sorda [ts]. Nei quattro principali gruppi di dialetti lombardi sono inoltre presenti ulteriori differenze rispetto al toscano a livello fonetico: con l’intento di fornire solamente un’idea di massima ai meno esperti in linguistica, le evidenziamo ora brevemente.
Il lombardo centrale si distingue dall’italiano standard, oltre che per le vocali appena citate, cioè [y] [ø], anche per la presenza della vocale anteriore semi-aperta arrotondata [œ] e della consonante fricativa postalveolare sonora [ʒ]. Sono invece assenti, oltre alle citate [ʎ] [dz], la vocale posteriore semi-chiusa arrotondata [o] e [ts], eccezion fatta per i dialetti di montagna e collina (ossolano, ticinese, bosino, comasco, lecchese, valtellinese).
Il lombardo occidentale invece differisce dal toscano, oltre che per le vocali [y] [ø], anche per la presenza della vocale centrale media []. Sono invece assenti, oltre alle citate [ʎ] [dz] [ts], la vocale posteriore semi-chiusa arrotondata [o] e la consonante fricativa postalveolare sorda [ʃ].
Il caso del lombardo meridionale è un po’ particolare perché la zona centro-orientale (Parma, Reggio e Modena) si differenzia notevolmente sia dal toscano che dal resto dei dialetti lombardi: oltre ad essere assenti le vocali anteriori arrotondate [y] [ø], sono presenti vocali assenti in tutti gli altri dialetti lombardi come la vocale posteriore aperta arrotondata [ɒ], la vocale quasi posteriore quasi chiusa arrotondata [ʊ], la vocale quasi anteriore quasi chiusa non arrotondata [ɪ] e la vocale anteriore quasi aperta non arrotondata [æ]. Oltre alle citate [dz] [ts], è sempre assente la [ʃ] mentre è assente solo a Piacenza e Mantova la [ʎ].
Il lombardo orientale si distingue dall’italiano standard, oltre che per le vocali [y] [ø], anche per la presenza, solo nei dialetti di montagna, della transizione glottidale sorda [h]. Sono invece assenti, oltre alle citate [ʎ] [dz] [ts], la [ʃ].

Per chi non conoscesse l’alfabeto IPA, segue una piccola legenda dei fonemi presenti nell’articolo.

– Vocale anteriore chiusa arrotondata [y]: la ü del tedesco für o la u del milanese mur
– Vocale anteriore semi-chiusa arrotondata [ø]: la ö del tedesco schön o la oeu del milanese roeus
– Vocale anteriore semi-aperta arrotondata [œ]: la ö del tedesco Hölle o la oeu del milanese bloeu
– Vocale anteriore quasi aperta non arrotondata [æ]: la a dell’inglese fat o la ë del modenese Sëccia
– Vocale quasi anteriore quasi chiusa non arrotondata [ɪ]: la i del tedesco bitte o la é del modenese gé
– Vocale centrale media [ə]: la e del tedesco haben o la ë del torinese chërde
– Vocale posteriore aperta arrotondata [ɒ]: la o dell’inglese lot o la ö del modenese dönna
– Vocale quasi posteriore quasi chiusa arrotondata [ʊ]: la u del tedesco Druck o la ó del modenese fó

– Transizione glottidale sorda [h]: la h del tedesco Haus o la s del camuno semper
– Consonante laterale palatale [ʎ]: la gl dell’italiano foglia o la del modenese
– Consonante fricativa postalveolare sonora [ʒ]: la j del francese jour o la sg del milanese partasg
– Consonante fricativa postalveolare sorda [ʃ]: la sc dell’italiano scena o la sc del milanese scernì
– Consonante affricata alveolare sonora [dz]: la z dell’italiano mezzo
– Consonante affricata alveolare sorda [ts]: la z dell’italiano pazzo o la z del ticinese zuccor.

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Le lingue lombarde

Dopo aver tracciato velocemente un quadro d’insieme sulla situazione geolinguistica della Lombardia, è ora giunto il momento di continuare la nostra disamina andando ad analizzare un poco piú approfonditamente le 4 lingue lombarde.

http://www.grandelombardia.org/it/wp-content/uploads/2015/12/voc.jpg

In queste pagine estratte dal vocabolario di milanese-italiano del Banfi (1857) si vede chiaramente come fino al Risorgimento a nessuna persona sensata pareva strano definire i dialetti piemontesi o quelli “emiliani” come varianti della lingua lombarda, così come a nessuno sembrava strano chiamare lombardi i piemontesi o gli emiliani. Non a caso Reggio fu “di Lombardia” fino al 1861, anno in cui la città venne infaustamente rinominata “nell’Emilia” dai Savoia.

 

 

Come evidenzia chiaramente la cartina sopra riportata, possiamo individuare quattro essenziali varianti del lombardo: centrale (insubrico indicato in blu), occidentale (piemontese indicato in giallo), meridionale (emiliano o bassolombardo indicato in rosso) e orientale (indicato in verde, comprendente principalmente il bergamasco e il bresciano).

Il lombardo centrale è sicuramente la variante con il maggior numero di locutori (stimabili attorno ai quattro milioni) e forse quella con la maggiore estensione territoriale. Nonostante la presenza di tre differenti sostrati (insubrico, lepontico e retico) e la relativamente ampia diffusione, è caratterizzato da una notevole intercomprensibilità, che va naturalmente ricondotta alla forte egemonia politica, religiosa e culturale di Milano. È inoltre interessante notare che, confinando con l’alemanno a nord e con le altre tre loquele lombarde sugli altri punti cardinali, il lombardo centrale è la variante che ha subito meno influenze linguistiche straniere, e conseguentemente quella probabilmente più vicina all’originaria koinè lombarda parlata nel Medioevo.

La seconda variante più parlata è il lombardo meridionale (circa tre milioni di parlanti) e probabilmente la maggiore a livello di estensione territoriale. I dialetti meridionali hanno un discreto sostrato celtico grazie ai celebri Boi e variano sensibilmente lungo lo scorrere del Po al punto che dialetti come il piacentino e vogherese sono molto più simili ai dialetti del lombardo centrale che non ad altri vernacoli meridionali. Va inoltre osservato che, a parte la zona occidentale, il resto dei dialetti meridionali è privo delle vocali turbate, probabile segno di scarsa penetrazione germanica durante il medioevo.

Difatti nonostante il fatto che comunemente pure le loquele ferraresi e bolognesi vengano considerate emiliane, esse per molti versi sono più romagnole che lombarde. A testimoniarlo sono per esempio la negazione preverbale e l’uso della particella “brisa” invece del “mia”. Del resto in quelle terre la dominazione longobarda fu piuttosto corta e superficiale.

Nonostante il ridottissimo territorio di diffusione, la terza variante per parlanti è il lombardo orientale (due milioni abbondanti). La ragione va chiaramente ricercata nel fatto che Bergamo e Brescia erano territori relativamente poveri rispetto al resto della Lombardia e ciò ha consentito loro di ritrovarsi con le percentuali di popolazione foresta più basse. Sebbene vi siano due importanti e differenti sostrati (orobico a Bergamo e cenomane/camuno a Brescia) i due dialetti sono piuttosto simili e facilmente intercomprensibili. Sebbene si siano perse le vocali lunghe di derivazione germaniche (influenza del veneto?), a livello fonetico entrambi i dialetti tendono ad aprire notevolmente le vocali (come il milanese d’altronde) e a far svanire parecchie consonanti (sopra a tutte “v” e “n”).

Grazie alle numerose ondate di italiani meridionali immigrati a Torino e dintorni fino agli anni ’80, la variante con il minor numero di parlanti resta quella occidentale (poco più di un milione e mezzo). I dialetti occidentali hanno indubbiamente un importante sostrato celto-ligure cui si è aggiunta una consistente influenza provenzale per via dei legami politici che i Conti di Savoia crearono espandendo il loro dominio nell’alta Pianura Padana. Caratteristiche tipiche del cosiddetto piemontese sono indubbiamente la famosa vocale centrale media (tradizionalmente scritta con il grafema ë), l’uso della negazione di derivazione francese “pà” e la diffusione di una koinè affermata conosciuta dalla maggior parte degli occidentali.

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Lingua o dialetto?

Cosa è il lombardo? Se domani andassimo in Piazza Duomo a Milano e avviassimo un bel sondaggio rivolgendo questa semplice e innocua domanda ai passanti ci ritroveremmo come principale risposta “un dialetto” e come risposta secondaria “una lingua”. Un grosso problema che si riscontra di sovente parlando di lombardo riguarda difatti la sua classificazione tassonomica; cioè, il lombardo è una lingua o un dialetto? Dato che esistono diverse definizioni di “lingua” e “dialetto”, per rispondere alla domanda bisogna prima capire cosa s’intende con questi due lemmi.

Se assumiamo una definizione di lingua usata fino a qualche decennio fa, ossia “loquela ben codificata e di affermato prestigio con una letteratura storica propria”, non si potrebbe sicuramente parlare di lingua lombarda, ma si potrebbe tuttavia parlare per esempio di lingua milanese. A questa definizione di lingua corrisponde una definizione di dialetto come “qualsiasi loquela con una propria caratterizzazione territoriale, ma privo di rilevanza politica o prestigio letterario”. Sebbene siano ancora adottate da parecchi retrogradi linguisti italiani, le dette definizioni sono scientificamente poco significative, al punto da essersi meritate il famoso aforisma: “una lingua è un dialetto che possiede un esercito e una marina”.

Oltre a quella esposta, vi sono ulteriori definizioni di lingua, ma dato che esporle tutte risulterebbe noioso ed esulerebbe dal tema della presente trattazione, fornisco quella che, a mio avviso, è la più sensata (nonché la piú diffusa in ambito scientifico), cioè “insieme di loquele mutualmente intercomprensibili”. In questo contesto, il termine dialetto è inteso come sinonimo di loquela. Da ciò ne deriva che lingua e dialetto non sono categorie opposte, ma una categoria dell’altro (insieme o sottoinsieme, a seconda del punto di vista). Certo, anche questa definizione non manca ovviamente di soggettività se consideriamo che l’intercomprensibilità tra una loquela e un’altra può variare in base al livello di preparazione culturale dei parlanti, può non essere transitiva, etc. ma di sicuro ha piú significatività rispetto a quella basata sulla fortuna politica di una loquela.

Prendendo come riferimento il locutore medio, non ci saranno comunque grandi discussioni nel sostenere che, secondo quest’ultima definizione, sarebbe probabilmente meglio parlare di lingue lombarde e non di lingua lombarda. Più precisamente, si può dire che il lombardo non è altro che un gruppo di quattro lingue (lombardo centrale o insubrico, lombardo orientale o orobico, lombardo meridionale o emiliano, lombardo occidentale o piemontese) con discreta intercomprensibilità.

A complicare la situazione linguistica del gruppo lombardo vi è però un’altra importante questione: la presenza di numerosi dialetti di transizione. Fatta eccezione per il confine tra Bergamo e Como, è difatti quasi impossibile trovare una netta separazione tra una lingua lombarda e un’altra. Questo problema è alla base di un’altra critica che viene spesso mossa nei confronti del lombardo dai sostenitori della prima, cioè che non non essendoci confini linguistici ben definiti, non si può parlare di lingue. Ovviamente si tratta di una critica un po’ assurda perché sarebbe come sostenere l’inesistenza del bianco e il nero perché in mezzo vi è una scala infinita di grigi.

L’esistenza di questo continuum linguistico rafforza perciò l’evidenza che, sebbene abbiano subito diverse influenze linguistiche, i Lombardi hanno tuttora vernacoli decisamente simili. D’altronde, non è sicuramente irragionevole ipotizzare che se non si fosse verificata una secolare frammentazione politica, ora ci ritroveremmo un panorama linguistico decisamente più omogeneo (paragonabile alla vera Francia, cioè la parte settentrionale della Repubblica Francese).

Essendovi dei dialetti di transizione anche tra il lombardo e altre lingue confinanti (come tra il lombardo e il ligure, tra lombardo e veneto, etc.), alcune persone quindi mettono in discussione l’unicità del lombardo. Ovviamente è lecito chiedersi se quelle che erano chiamate lingue lombarde fino al risorgimento sono imparentate tra di loro e hanno qualche caratteristica unica che al contempo le unisce e le differenzia poi da altre lingue. Molti linguisti inseriscono infatti queste lingue all’interno della famiglia linguistica cosiddetta “gallo-cisalpina” (o “gallo-italica”) celebre perché il pronome personale non deriva dal nominativo latino ego ma dall’accusativo me (da cui la definizione di “lingua del mi”) e che comprende anche il ligure, il romagnolo e il veneto. Tuttavia, se si analizzano bene queste lingue è possibile trovare una caratteristica fondamentale che caratterizza tutte le lingue lombarde: la negazione postverbale. Si tratta di una caratteristica unica delle 4 lingue lombarde e che le differenziano non solo dalle altre lingue gallocisalpine, ma anche da tutte le altre lingue romanze (cioè quelle derivate dal latino, come italiano, spagnolo, francese, rumeno, etc.). La negazione postverbale è difatti presente, oltre che nel lombardo, nelle lingue germaniche e questo porta ovviamente a pensare che si tratti di un’eredità proveniente dallo stesso popolo che ci ha dato il nome: i Longobardi.

Un altro problema sulla classificazione filologica del lombardo riguarda la sua classificazione sistematica poiché c’è chi lo considera parte della famiglia linguistica galloromanza (romanzo occidentale) e chi invece lo inserisce nella famiglia linguistica italiana (romanzo orientale). Una certa colpa per questa confusione la ha anche il Sommo Poeta. Chi ha studiato la Divina Commedia ricorderà infatti la celebre frase dantesca «del bel paese là dove ‘l sì suona» presente nell’Inferno. Si tratta di una frase poetica che lascia il tempo che trova considerato che lo stesso avverbio affermativo “sì” è presente pure nello spagnolo. Chissà perché questo non viene mai preso in considerazione dai sostenitori della tesi secondo il quale le parlate lombarde sarebbero dialetti italiani. Del resto credo sia comunque molto eloquente notare che nonostante il fatto che il lombardo sia stato riconosciuto internazionalmente come lingua galloromanza in pericolo d’estinzione, lo stato italiano continua a considerarlo un insulso dialetto. Vi è infatti una serie di caratteristiche che mettono in comune il lombardo alle altre lingue romanze occidentali, come l’assenza di geminazione (le consonanti doppie a livello fonetico), la sonorizzazione delle consonanti all’interno delle parole (es: faticam – fadiga), etc. La presenza di vocali nasali, la presenza delle vocali turbate (come i suoni “oeu” e “u” che corrispondono rispettivamente alla “ö” e alla “ü” in tedesco) e la tendenza a perdere le vocali finali atone sanciscono poi l’appartenenza del lombardo alla sottofamiglia galloromanza.

Per ricapitolare, il lombardo fa perciò parte della sottofamiglia delle lingue romanze occidentali, la quale comprende a sua volta il gruppo iberoromanzo e il gruppo galloromanzo. Quest’ultimo è infine suddiviso in sottogruppo settentrionale, sottogruppo occitano e sottogruppo cisalpino (sottogruppo cui il lombardo appartiene). Giusto per chiarire le idee a chi è poco ferrato in linguistica, si ricorda che l’italiano standard è una variante del toscano, lingua appartenente alla sottofamiglia orientale, la quale comprende il gruppo italoromanzo e il gruppo balcanoromanzo.

Tale ulteriore precisazione è da considerarsi doverosa perché moltissimi lombardi sono tuttora convinti che la propria lingua sia un dialetto dell’italiano. Ma come sarebbe possibile ciò se i due idiomi in realtà non fanno neppure parte della medesima sottofamiglia? In verità, è sufficiente possedere un minimo senso critico per intuire come pure la linguistica sia stata strumentalizzata per cercare di legittimare uno stato centralista come la Repubblica Italiana, la quale non rispetta le naturali diversità dei popoli che lo compongono.

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Siamo tutti cosmopoliti ipocriti

                                                     

Sono passati pochi giorni dai famigerati attentati di Parigi dopo i quali hanno avuto posto i vari “gesti di solidarietà” con tanto di frasi hashtag “Je suis Paris”, “Pray for Paris”, esattamente come è stato con la frase “Je suis Charlie” dopo l’attentato del 7 gennaio 2015.

Come ci si poteva immaginare gli attentatori si sono rivelati legati all’ISIS e in gran parte sono “francesi di seconda o terza generazione”, in altre parole arabi con il passaporto francese, nati e cresciuti in Francia.

Tutto ciò è l’esempio lampante di come le idee sostenute da alcuni geni, inneggianti alla società multirazziale e a un mondo senza confini, siano non solo utopiche e ingenue ma anche pericolose.

A testimoniarlo è anche l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, cosí come i disordini avvenuti nelle banlieue di Parigi negli ultimi anni.

Eppure c’è chi non solo crede di poter combattere il terrorismo islamico con i girotondi della pace e con le già citate frasi hashtag, ma anche che tutto ciò non sia dovuto alla folle politica immigrazionista della UE o che magari i colpevoli sarebbero addirittura gli esponenti dell’estrema destra, i quali “diffondono paure”, senza però capire che la progressiva diffusione del nazionalismo nel vecchio continente non sia la causa ma una delle ovvie conseguenze.

Come se fosse l’estrema destra ad aver trasformato le periferie di molte città europee in ghetti pervasi da criminalità e inciviltà.

Ma veniamo al dunque.

Nonostante il fatto che l’occidentale medio si straccia le vesti per i cosidetti rifugiati (leggi invasori sui barconi), la povertà e la fame in Africa, esso si dispiace compiendo gesti di solidarietà di dubbia utilità solo quando una disgrazia avviene in un paese occidentale (intesi l’Europa centro-occidentale, il Nord America o forse anche l’Australia).

Già, perchè non è stata solo la strage di quasi 200 persone, compiuta dagli islamisti in Kenya in questi giorni ad essere rimasta relativamente trascurata, ma pure lo schianto dell’aereo russo del 31 ottobre, durante il quale sono morte più di 200 persone!

Eppure la Russia non è un paese geograficamente e culturalmente così lontano.

Anzi, l’ormai famosa rivista satirica Charlie Hebdo ha pure pubblicato una vignetta in cui questi morti venivano derisi!

Per non parlare della scarsa considerazione che ha avuto il conflitto nel Donbass, conflitto avvenuto in Europa, non in Africa o in Medio Oriente.

La verità è che purtroppo “l’Occidente” è oggi in gran parte popolato da pecore, insieme ai rispettivi pastori (essendo il politicamente corretto l’opprimente religione dei nostri tempi), ossia i politici, i media e le banche.

Di conseguenza ognuno si indigna e si dispera solo quando questo fa comodo a chi ha in mano il potere politico ed economico, oppure quando dei fatti spiacevoli come quelli di Parigi (ma che in Medio Oriente avvengono praticamente ogni giorno) rischiano di turbare il quieto stile di vita borghese occidentale, stile di vita nel quale ognuno piuttosto che risolvere un determinato problema preferisce non parlarne e nel quale si preferiscono le bugie rassicuranti anzichè le verità scomode.

Questo significa che mentre i governi antinazionali al servizio degli USA continuano la loro opera di distruzione dei popoli europei tramite l’immigrazione di massa con lo scopo di eliminare qualsiasi ostacolo per il mercato globale, gli stessi attuano politiche di destabilizzazione del Nord Africa e del Medio Oriente con l’obiettivo di sanare i problemi economici americani e di trattenere la “minaccia” rappresentata dalla Russia e dall’Iran.

Altrimenti come si spiegherebbe il fatto che la Francia negli ultimi anni non si è fatta nessun problema per bombardare paesi come la Libia, il Mali e adesso anche la Siria ma non riesce o non vuole risolvere la grave situazione di immigrazione formatasi nelle proprie città, specialmente a Parigi e a Marsiglia.

In poche parole la geopolitica occidentale si limita a creare caos sia in Europa che nelle zone geograficamente circostanti.

A coloro che ci accuserebbero di complottismo cercando di convincerci che la causa delle “primavere arabe” sarebbe la mancanza di democrazia in quei paesi e che l’Occidente aiuti i rispettivi popoli a liberarsi dalle dittature, vorremmo ricordare che gli Stati Uniti hanno tra i principali alleati l’Arabia Saudita, paese in cui non solo mancano i diritti umani fondamentali, ma che finanzia il terrorismo, visto che molte moschee in Europa, motivo di diffusione dell’islamismo radicale, sono finanziate proprio dalla monarchia petrolifera.

Qualcuno potrebbe anche accusarci d’incoerenza, usando come giustificazione la politica occidentale in Nord Africa e in Medio Oriente per l’immigrazione di massa.

Peccato però che tra i più accaniti sostenitori delle “primavere arabe” e tra i più cocciuti dettratori di Gheddafi e della laica Siria di Assad (entrambi i paesi fino a pochi anni fa erano di sicuro piú stabili e anche piú democratici di come lo sono adesso) ci siano sempre stati gli esponenti della sinistra universalista, cioè quelli che difendono a spada tratta l’islam in Europa ma allo stesso tempo criticano l’islam a casa sua.

Però solo se si tratta di Iran, di Assad o di Gheddafi e non delle monarchie del Golfo oppure della Turchia, la quale pur essendo laica ha una reputazione alquanto discutibile.

La stragrande maggioranza degli identitari invece è sempre stata contraria agli interventi della NATO nel mondo arabo e lo è tuttora.

Sta a voi quindi giudicare chi è coerente e chi è ipocrita.

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L’evoluzione dei concetti di “Italia” e di “Lombardia”

Normalmente quando si parla di “Italia” e di “Lombardia” il riferimento verso questi termini è fatto secondo il significato amministrativo che al giorno d’oggi assumono, ossia Repubblica Italiana per “Italia” e Regione Lombardia per “Lombardia”. Complice l’ignoranza diffusa, troppo spesso l’estensione amministrativa di questi enti è tuttavia applicata ad altri campi quali l’etnia, la lingua, la cultura, etc. In particolare, è credenza diffusa che il territorio e la popolazione che sono governati da questi enti abbiano omogeneità e unicità etnica, storica, linguistica, culturale. In altre parole, che la Repubblica Italiana corrisponda all’unica ed esclusiva terra in cui abita l’omogeneo e monolitico “popolo italiano”, che è anche una terra storicamente considerata “italiana” in cui si parlano lingue “italiane” e vi sia diffusa un unica cultura “italiana”.

In maniera piuttosto similare, si pensa che la Regione Lombardia corrisponda all’unica ed esclusiva terra in cui abita il popolo “lombardo”, che è anche l’unica terra storicamente considerata “lombarda” in cui si parlano lingue “lombarde” e vi sia diffusa una cultura “lombarda”. Questa confusione tra Italia e Repubblica Italiana e tra Lombardia e Regione Lombardia ha portato alla triste convinzione che, non solo la Lombardia etno-linguistica corrisponda all’omonima regione, ma anche che, essendo parte della Repubblica Italiana, sia Italia, intesa come Nazione unica e omogenea dalle Alpi alla Sicilia. Purtroppo si tratta di un errore clamoroso, che deriva da una serie di sfortunate combinazioni storiche e dall’interesse, passato e presente, di ristrette cerchie di persone. La domanda che a questo punto sorge spontanea, o quantomeno dovrebbe nascere tale, è cosa voglia dire “Italia” e “Lombardia” sotto i quattro aspetti citati, ossia etnico, storico, linguistico e culturale. Si tratta di un interrogativo dalla complessa risoluzione e che necessita quindi di un’accurata trattazione pluridisciplinare per essere esaustivo.

Il primo passo per affrontare questo compito e che sarà fatto in questa sede è una trattazione dell’evoluzione storica che il concetto di “Italia” e quello di “Lombardia” hanno avuto dalla loro origine ai giorni nostri. Essendo piú antico il concetto di Italia, inizieremo da questo.

Il termine “Italia” sembri derivi dall’osco Viteliú (“terra dei vitelli”), indicando di conseguenza o un territorio con una grande presenza di bovini o un territorio ove il vitello era adorato come animale sacro, che in Magna Grecia divenne in seguito Vitalia e infine Italia.Questo nome compare per la prima volta nei documenti del VI secolo prima dell’era volgare per designare la parte piú meridionale della penisola calabrese.Un secolo piú tardi il nome Italia si era imcomprensibilmente già esteso all’intera Calabria, alla Lucania e a parte della Puglia e del Salento.L’espansione piú grande avvenne tuttavia con il III secolo a.C quando il termine Italia arrivò a designare tutti i territori a sud dei fiumi Arno ed Esino. Risulta importante specificare che il termine “Italia”, che fino ad allora aveva avuto unicamente valenza geografica, assunse anche una qualifica amministrativa in quanto identificava i territori direttamente dipendenti dal governo di Roma.

Nel 81 a.C. Silla spostò il confine del termine geografico-amministrativo “Italia” allo spartiacque appenninico e al fiume Rubicone (che diverrà famoso quale confine entro il quale era assolutamente vietato oltrepassare con eserciti armati) includendo inoltre la Liguria. Dopo aver “conquistato” l’intera penisola geografica, la diretta amministrazione dell’urbe, e quindi anche il termine “Italia”, fu esteso alla Gallia Cisalpina per mano di Cesare nel 45 a.C. L’ultima estensione del termine meramente amministrativo “Italia” avvenne tre secoli piú tardi quando le tre grandi isole, che fino allora erano rimaste province, furono annesse da Diocleziano nel 292 d.C. Questa Italia unita tanto decantata dagli irredentisti italianisti non durò che poco piú di 30 anni poiché nel 324 d.C. l’imperatore Costantino la divise in Italia Annonaria con capitale Milano e che inglobava la Gallia Cisalpina, la Rezia e la Pannonia e l’Italia Suburbicaria con capitale Roma che comprendeva la penisola italiana propriamente detta (cioè dalla linea Massa-Senigallia in giú). Rimase comunque in piedi l’ente amministrativo della “prefettura d’Italia” che comprendeva l’attuale Repubblica Italiana e l’Illiria e il cui nome sopravvisse pure alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 finché non fu trasformato in “Esarcato d’Italia” nel 580. Nel frattempo (568) i Longobardi avevano conquistato la Valpadana e avevano istituito un loro regno.

Il termine “Italia” rimase per cosí dire vivo a identificare l’omonimo Esarcato bizantino fino al 751, quando questo fu conquistato dal re longobardo Astolfo. Il nome scomparve per qualche decennio finché non fu rispolverato nel 781 da Carlo Magno per denominare il regno che creò per il figlio Pipino con le terre strappate ai Longobardi.

Va tuttavia notato che da questo momento il termine Italia cambia nuovamente significato e va paradossalmente a indicare le terre sotto dominio imperiale al di sotto delle Alpi (cosa che verrà poi ribadita pure da una bolla papale, la quale sancirà che per “Italia” s’intende unicamente i territori a nord dello stato pontificio).Il Regnum Italicum durò formalmente fino al 1014 ma il termine “Italia” era già caduto in disuso nel linguaggio comune nel VII secolo e veniva usato unicamente in documenti burocratici per fini elogiati poiché ricollegava alla gloria dell’antica Roma (cosa che del resto fecero i tedeschi o anche i bizantini denominando “Romano” i loro imperi). Nel parlare quotidiano i territori della vecchia Gallia Cisalpina e della Toscana erano infatti oramai conosciuti solo con il nome di Lombardia e allo stesso modo i suoi abitanti erano chiamati Lombardi. A riprova di ciò basti pensare che la coalizione tra le città della valpadana (che andavano da Verona a Cuneo) che si oppose al Barbarossa si autodefinì Lega Lombarda e non “Lega Italiana” e che la celebre strada di Londra che ospitava gli orafi e i banchieri provenienti dalla Valpadana e dalla Tuscia fu chiamata Lombard street e non “Italian street”.

Risulta quindi interessante notare che il concetto di “Italia” e quello di “Lombardia” si erano sostanzialmente sovrapposti, in quanto entrambi definivano i territori imperiali sotto lo spartiacque alpino. Con il basso medioevo il termine “Italia” cadde quindi definitivamente in disuso anche a livello burocratico al punto che alcuni secoli piú tardi un dizionario dei termini desueti redatto durante il Rinascimento spiega che il lemma era usato in epoca classica per indicare i territori governati direttamente da Roma.

Il Rinascimento vede inoltre un cambiamento del concetto di Lombardia, il quale non è piú utilizzato per indicare la Toscana, la Liguria e le terre sotto dominio veneziano. Il termine “Lombardia” rimane però saldamente affrancato all’intero bacino idrografico del fiume Po fino all’Ottocento, quando Napoleone recupera il termine burocratico “Italia” e lo usa per indicare uno stato fantoccio creato tra il Sesia e l’Istria.

Lo sviluppo del neoclassicismo in quel periodo inizia a fare sempre piú forte il mito di Roma, che viene vista con sempre maggiore ammirazione anche dai Lombardi, i quali iniziano a vedere con sospetto il termine “Lombardia” perché si pensava fosse legato a una mera dominazione straniera. L’ingenuo pensiero che fu fatto ai tempi era che l’estensione del termine Italia alla Gallia Cisalpina fosse stata congiunta a una colonizzazione etnica della valpadana da parte dei romani che avrebbe del tutto rimpiazzato l’elemento celto-ligure precedente e che Goti e Longobardi fosse stata solo una dominazione passeggera.
A questo va aggiunto il prestigio che dava l’idea di dirsi discendenti della civiltà romana, ritenuta “superiore” perché aveva lasciato piú testimonianze di sé rispetto a quella celtica o germanica.
Va notato che il termine “Italia” era però stato ripreso con l’accezione medievale del termine, ossia in riferimento ai territori imperiali al di sotto della catena alpina.Quando il Conte di Cavour e gli altri personaggi del “Risorgimento” parlavano di “unire l’Italia” intendevano difatti l’unione in un solo regno dei territori della Valpadana e della Toscana.
L’unico a intendere il lemma di “Italia” con estensione ai territori dell’attuale Repubblica Italiana era il massone Giuseppe Mazzini, il quale sosteneva un’assurda unità e omogenità etnica, linguistica, culturale e storica dalle Alpi alla Sicilia.

Purtroppo le pressioni inglesi e francesi per la creazione di uno stato unico nella penisola italiana per eliminare lo stato della chiesa e controllare meglio il Mediterraneo portarono alla famosa spedizione dei Mille e quindi all’unificazione di quei territori che sono anche oggi intesi come “Italia”, sotto un governo fortemente centralista, facendo cosí felice lo strampalato genovese.

Il mito di Roma durante il Risorgimento non si limitò tuttavia al recupero del termine “Italia” ma portò all’assurda denigrazione del termine “Lombardia”, considerato purtroppo solo come un brutto ricordo di un’occupazione straniera. Si trattò di un disprezzo talmente insano che nel 1861 arrivò al punto di cambiare il nome della città di Reggio di Lombardia nella squallida denominazione di “Reggio nell’Emilia”. Passato l’odio risorgimentale verso la “lombardità”, il termine “Lombardia” fu ripescato nel 1970 per denominare una regione fatta a caso e che non rappresenta assolutamente quella che è la Lombardia a livello etnico, storico, linguistico e culturale.

Purtroppo l’ignoranza diffusa all’interno dei movimenti identitari nati negli anni ’90 ha però portato a credere che la Lombardia fosse la regione creata a tavolino nel 1970 tanto che se adesso fai notare a un torinese o a un modenese che sono Lombardi la prendono quasi per un’offesa.

Dopo secoli di confusione sul concetto di Italia e di Lombardia, è giunto il tempo di fare chiarezza su questi termini e definire una volta per tutte cosa in realtà dovrebbe razionalmente e ragionevolmente essere inteso per Italia e per Lombardia.
Si tratta di un compito che verrà espletato nei prossimi articoli al riguardo.

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Je suis Charlie Martel

Sono tutti a conoscenza che lo scorso 7 gennaio 2015 alcuni estremisti musulmani hanno attaccato la sede della rivista satirica francese “Charlie Hebdo” provocando morti e feriti tra i giornalisti che vi lavoravano e tra le forze dell’ordine intervenute sul luogo, vittime per le quali si esprime un sentito cordoglio.

La motivazione di questo tragico attacco terroristico risulta essere legata alla pubblicazione da parte della suddetta rivista di alcune vignette raffiguranti, in maniera blasfema, il profeta Maometto.

Questo ha fatto considerare l’evento come un attacco alla libertà di espressione e ha perciò scatenato una catena di “solidarietà” verso i giornalisti colpiti caratterizzata dalla frase/hashtag “Je suis Charlie Hebdo”.

Per quanto questo caso sia decisamente molto piú grave a causa della violenza estrema perpetratasi, viene però da chiedersi come mai quando nel 2009 la stessa rivista aveva licenziato un vignettista per “antisemitismo” nessuno si era scandalizzato e mobilitato?

Perché poi nessuno si è mai scandalizzato quando gli storici revisionisti sono stati vittime di lesioni e incarcerazioni per avere espresso la propria opinione su un evento storico?

Il dubbio che emerge è che la libertà di espressione debba essere tutelata solo quando fa comodo.

Sebbene quello della disparità di trattamento nella tutela della libertà di parola sia un tema importante, il punto piú grave della vicenda, e che s’intende affrontare in questo intervento, è che dei folli possano seminare il panico in Europa così facilmente.

Questo perché quello del 7 Gennaio non è un caso isolato.

Sono anni che le periferie di Parigi (cosí come quelle di città come Londra, Amsterdam, Stoccolma, etc.) vengono messe sottosopra da immigrati arabi e africani, i quali spesso sono spinti dall’odio nei confronti dei paesi in cui vivono (talvolta pure con una pennellata di islamismo radicale).

E a comportarsi in questo modo nella stragrande maggioranza dei casi non sono dei nuovi arrivati, bensì degli immigrati di seconda o terza generazione che sono nati e cresciuti in Europa!

Per quanto gli esponenti delle lobby “progressiste” affermino tutt’altro, il fatto che i terroristi responsabili dell’attacco a Charlie Hebdo siano “francesi” di seconda e terza generazione dimostra infatti ancora una volta come sia impossibile l’integrazione di genti che con noi non c’entrano niente né etnicamente né culturalmente.

Nonostante ciò, c’è comunque qualcuno che sostiene che non tutti gli immigrati musulmani sarebbero cosí radicali e che quelli che agiscono in questo modo lo fanno per colpa di una società che non li vuole integrare (sic!).

A parte il fatto che questi campioni della logica dovrebbero spiegare come si distinguono i musulmani “bravi” da quelli “cattivi”, come si può incolpare la società di non integrare gli immigrati quando questi ricevono case popolari, contributi sociali, contributi familiari, etc.?

Per non parlare poi del ribaltamento del principio di buon senso secondo cui è l’ospite a doversi adattare in casa altrui: non sono difatti rari i casi di modifica delle tradizioni locali per non turbare gli animi degli immigrati, come l’abolizione dei canti di natale nelle scuole o la rimozione della carne di maiale nelle mense.

Cosa bisognerebbe fare d’altro?

Cedere forse loro direttamente le nostre abitazioni e tutti i nostri beni nonché convertirci in massa all’islamismo?

Anche se paradossalmente succedesse, stiamo certi che la cricca progressista troverebbe comunque altre accuse verso i “cattivi” e “razzisti” indigeni europei.

In un tempo di grande pericolo per l’incolumità dell’Europa e delle sue genti, quello che serve non è una finta solidarietà per la difesa di una fittizia libertà di espressione e nemmeno un maggiore sforzo di “integrazione” degli immigrati, bensì la capacità di riconoscere il vero nemico e respingerlo, proprio come fece un altro “Charlie” nel 732 a Poitiers.

Je suis Charlie Martel.

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La propria identità conta piú di qualche quattrino?

Come saprete, pochi giorni fa si è svolto un referendum per l’indipendenza della Scozia: la consultazione si è conclusa con una vittoria degli unionisti, i quali hanno ufficialmente raggiunto una quota del 55% dei consensi.

Nonostante il Regno Unito non abbia una fama di paladino alla difesa dei diritti delle minoranze etniche al suo interno (irlandesi, scozzesi e gallesi), questa volta ha deciso di concedere la possibilità di organizzare un referendum d’indipendenza.

In teoria, si tratterebbe quindi di un bel traguardo considerato che questa opportunità di esercizio del diritto di autodeterminazione dei popoli non vuole essere concessa a territori come la Catalogna in Spagna o le varie nazioni padano-alpine in Repubblica Italiana.

Nella pratica, vi sono tuttavia alcuni dubbi sulla trasparenza e la correttezza di questo referendum.

Sembra difatti troppo strano che il Regno Unito, uno dei membri piú attivi della NATO, abbia concesso la possibilità di separarsi a una regione d’importanza geopolitica come la Scozia.

Non ci si può proprio dimenticare che nelle acque territoriali della Scozia sul Mare del Nord ci sono numerosi giacimenti di petrolio e che sulle coste scozzesi si trova la HMNB Clyde, l’importante base operativa della Royal Navy che ospita, tra l’altro, i sottomarini nucleari Trident.

Un importante dubbio è poi legato all’elettorato del referendum: sono difatti stati ammessi al voto gli immigrati con cittadinanza dell’Unione Europea e del Commonwealth residenti in Scozia, ma non gli scozzesi che risiedono all’estero.

Questo sembra chiaramente una scelta a vantaggio del no, visto che gli immigrati hanno tutto l’interesse affinché la Scozia rimanga parte dell’Unione Europea e del Commonwealth e che gli scozzesi all’estero sembravano per lo piú favorevoli all’indipendenza.

L’idea che viene quindi a formarsi è che Londra abbia subdolamente permesso questo referendum con il fine di mostrare al mondo quando tengono al rispetto dei diritti fondamentali e sapendo poi bene di ottenere alla fine un risultato tale da far restare la Scozia sotto il regno di Elisabetta II .

La forte rimonta degli indipendentisti nei sondaggi appena prima del referendum ha fatto però perdere tutta questa sicurezza a Downing Street, tanto da costringere il premier Cameron a correre ai ripari e siglare un “contratto” con gli altri partiti inglesi per conferire piú poteri e autonomia alla Scozia in caso gli scozzesi avessero scelto il “better together”.

Cosa che vagamente ricorda gli 80 euro che Renzi ha promesso alle elezioni europee di questo maggio e che gli hanno garantito ampi consensi elettorali.

Il fatto che delle (misere) promesse di maggiori ritorni di denaro riescano a manipolare in questo modo le masse suggerisce come è ancora necessario far capire alla popolazione che non si può vendere la propria identità, ma anche la propria qualità della vita, per effimeri vantaggi economici di breve periodo.

Per questo motivo, noi di Grande Lombardia abbiamo sempre puntato innanzitutto sulla rinascita e sull’affrancamento del sentimento nazionale Lombardo, piuttosto che all’indipendentismo tout-court.

Sappiamo bene che l’economia è importante, ma l’autodeterminazione dei popoli non deve basarsi solo ed esclusivamente su questi fattori tralasciando le questioni etniche, storiche, culturali e sociali.

Del resto che senso avrebbe una “Regione Lombardia” (da non confondere con la Lombardia etnica) indipendente, ma pur sempre schiava dell’atlantismo, abitata da gente che non si sente italiana solo perché odia le inefficienze della repubblica italiana (e non perché di etnia, cultura, lingua, storia diversa) e sovrappopolata per colpa degli immigrati?

Questo non significa che vogliamo restare sotto la Repubblica Italiana, ma che la lotta di autodeterminazione delle Nazioni senza stato non deve limitarsi alla richiesta del referendum per l’indipendenza.

E qui non si può non pensare all’ingenuità di alcune correnti indipendentiste nel pensare che gli immigrati la smettano di votare i partiti unionisti degli stati fantoccio mondialisti, i quali fanno di tutto per concedere loro case popolari, agevolazioni, sussidi, etc. a danni degli indigeni, per sostenere la causa indipendentista.

Tornando al referendum scozzese, per quanto alcuni video che circolano su internet mostrino in maniera piuttosto inequivocabile come siano stati perpetrati brogli nel conteggio dei voti, la forte differenza (10%) tra il sí e il no implica che molti scozzesi hanno comunque deciso di votare per il mantenimento dello status quo.

Va tuttavia fatto notare come nei sondaggi post-voto gli indipendentisti fossero la netta maggioranza (oltre il 60%) tra i piú giovani e si riducessero poi a un’esigua minoranza (circa il 30%) nelle fasce piú anziane della popolazione.

Questa presa di coscienza dei piú giovani ci lascia quindi con una forte speranza: i giovani non guardano ai meri ritorni economici del presente, ma stanno iniziando a pensare al loro futuro a lungo termine.

L’autodeterminazione dei popoli è solo questione di tempo.

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Questione di decisioni

Sarebbe opportuno che i governi europei chiarissero ai propri cittadini quali sono le politiche che intendono adottare riguardanti l’immigrazione.

Finora infatti abbiamo assistito solo a un susseguirsi di sbarchi quasi ininterrotti dal 2011 ad oggi, a fronte dei quali nessuno dei governi interessati ha saputo esprimere alcuna volontà d’azione, ne alcun piano strategico.

L’operazione “Mare Nostrum” inaugurata nel 2013 dal governo Letta non è, a parte il nome e un dispiegamento di risorse maggiore, nulla di nuovo rispetto ai precedenti provvedimenti, già messi in atto nei decenni passati per far fronte agli sporadici sbarchi sulle nostre coste (con la differenza che allora erano immigrati, oggi sono migranti) prima dell’accordo con la Libia di Gheddafi.

In sostanza, solo un’operazione di salvataggio in mare aperto.

Cosa fare in seguito, cioè quando questa gente sarà ufficialmente in mano nostra, rimane un’incognita, anzi un mistero.

Quello che i nostri governanti hanno omesso di spiegare è, primo, qual è il principio che rende Giusta l’idea di “inglobamento” (termine credo più adatto di integrazione) oggi imperante, secondo, cosa realmente si dovrebbe fare per mettere in atto questo principio.

Personalmente infatti non trovo alcun nesso logico tra il salvare una persona in alto mare e il decidere successivamente di integrarla nel tessuto sociale.

L’una è una decisione umana, l’altra politica. (cit. Della Loggia).

È lecito chiedersi dunque perché la Lombardia, come tutta l’Europa, avrebbe il bisogno o il dovere di inglobare decine di milioni di extracomunitari nella sua realtà politica, economia e sociale.

Poiché nulla di tutto ciò è stato fatto presente all’opinione pubblica, questa rimane inconsapevole del proprio diritto d’opinione e d’azione, aspettando apatica che uno qualsiasi dei politicanti sul palcoscenico si presti a fornire una soluzione al problema.

Contemporaneamente, i nostri rappresentanti cercano di destreggiarsi tra le vaghe aspettative di una popolazione già esausta per problemi nostrani, che certamente non può reggere anche quelli importati, e coloro i quali invece, evidentemente, vogliono che lo status quo rimanga inalterato.

È sulla linea di questo diktat che oggi la politica si muove.

Nessun politico, per quanto progressista e integrazionista, ha mai proposto opere concrete per rendere gli sbarchi più sostenibili (come potrebbero essere la costruzione di nuovi campi di accoglienza) poiché conscio dell’estrema impopolarità di tali decisioni.

In compenso, gli esponenti della sedicente destra liberale non si sono mai pronunciati contro questo Esodo, limitandosi a riconoscere sí l’esistenza di un problema, senza però dirci quale sarebbe la loro, seppur provvisoria o personale, soluzione.

Trovandosi nel mezzo, i due gruppi contribuiscono in egual misura al perpetuarsi di questo paradosso.

Recentemente si è discusso anche sulla possibilità che un clandestino non abbia obbligo di residenza nel Paese in cui gli sono state prelevate le impronte.

Si è cercato quindi di estendere la responsabilità delle future scelte politiche anche a quei paesi UE che non hanno un problema diretto di sbarchi, ma che in qualche modo ne sono chiamati in causa.

Se il principio può considerarsi giusto, concretamente un provvedimento in tal senso sarebbe d’ausilio come lo spegnere un incendio appiccandone altri.

Mentre i partiti italiani si dimenano convulsamente per dare l’illusione di un processo politico in movimento la Nazione lombarda soffoca nel perbenismo, dimostrando all’Europa, a coloro che appoggiano questo Esodo e soprattutto a sé stessa di non potersi nemmeno permettere un giudizio, un’idea di ciò che essa ritiene giusto.

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Basta con le chiacchiere

Grande Lombardia è un movimento politico-culturale nato nel novembre 2013 che ambisce a riunire i Lombardi identitari con il fine di rinfrancare l’identità nazionale del Popolo Lombardo.

Va però notato che, per quanto GL sia all’opera da poco meno di 8 mesi, una buona parte dei membri era tuttavia già attiva nell’ambiente identitario con il vecchio Movimento Nazionalista Lombardo e aveva in mente la creazione di un movimento identitario panlombardo già dal 2009.

Nonostante non ci siamo improvvisati giusto ieri, non si può negare che finora le nostre attività siano state ben poche e si siano essenzialmente limitate al campo informatico.

Non abbiamo problemi a riconoscere che, a parte l’adempimento delle noiose e numerose pratiche burocratiche italiane, in questi mesi ci siamo in sostanza limitati a costruire il presente sito internet.

Chiaramente la costruzione di questo spazio telematico dai contenuti piuttosto articolati e disponibile in ben 3 lingue è già stato un bel passo, ma non ci si può e non ci si deve fermare alla virtualità.

Ma per quale motivo secondo voi non sono state fatte piú attività concrete?

Semplicemente perché non sono state organizzate?

Assolutamente no: dalla fondazione sono stati organizzati ben 3 eventi, tutti annullati per il mancato raggiungimento del numero minimo di partecipanti.

Qualcuno dirà “ma è ovvio, il Lombardo medio non è interessato alle vostre tematiche” o peggio ancora “tanto non ci potete fare niente”.

Certo, che i Lombardi identitari siano una stretta minoranza della popolazione è una triste realtà che avevamo messo in conto fin dall’inizio.

Quello che sembra strano è che siano così pochi.

Se difatti diamo un’occhiata su internet, in particolare su Facebook, la nostra pagina ha quasi 400 “mi piace”, e sono piú o meno altrettanti coloro che dicono di sostenerci moralmente.

La domanda che sorge spontanea a questo punto è: siamo proprio sicuri che tutti quelli che si dichiarano identitari lo siano poi anche nei fatti?

Se si sta sottolineando questa cosa è proprio perché abbiamo ricevuto la critica di non aver fatto attività al di fuori della rete (ragione per cui il nostro movimento mancherebbe di appeal tra la gente) proprio da persone che si dichiarano identitarie, ma che poi non si fanno problemi nel mettersi da parte quando c’è da fare qualcosa di concreto.

Siamo pienamente d’accordo che bisogna fare piú attività concrete, ma come possiamo fare di piú se siamo sempre i soliti a impegnarci?

Come possiamo fare di piú se la maggior parte degli stessi aderenti ha sempre una ragione pronta per non partecipare agli incontri?

La critica maggiore è quindi indirizzata principalmente verso chi predica bene ma razzola male, cioè verso chi si lamenta della mancanza di attività concrete e poi quando queste sono organizzate puntualmente ha qualche scusa per non partecipare.

Ma una piccola critica me la sento di rivolgerla anche a chi ha realmente qualche problema di varia natura e per questo se ne sta, anche comprensibilmente, in disparte.

Ricordo difatti che anche noi membri piú attivi abbiamo una nostra vita con relativi momenti di gioia e dolore: questo non ci fa tuttavia dimenticare che impegnarsi nell’azione identitaria vuol dire lavorare per la costruzione e il miglioramento del nostro futuro.

L’essere consci che il tempo e le risorse spese adesso nella battaglia identitaria non sono altro che un investimento per noi e per i nostri cari è sicuramente una delle piú importanti motivazioni che ci spingono ad andare avanti.

Potrei continuare per pagine a scrivere sulle altre motivazioni che sostengono la nostra lotta ma non sarebbe utile dilungarsi troppo.

L’appello concreto che voglio fare con questo mio intervento è che, ora come ora, la priorità deve essere la riunione e la mobilitazione di tutti i veri identitari lombardi.

I Lombardi devono impegnarsi seriamente in prima persona per il loro futuro e, mi si consenta di ricordarlo, devono finirla una volta per tutta di dividersi per ridicoli personalismi o altri futili motivi.

Uniti si prospera, divisi si perde.

Non scordiamoci che mentre noi fatichiamo a tenere insieme alcune decine di identitari, la Lombardia viene sempre piú distrutta dalla cementificazione, dall’immigrazione di massa extraeuropea, dall’oblio delle nostre culture, etc. (ma lo stesso vale anche per il resto dell’Europa).

Signori miei, possiamo parlare e lamentarci a tavola o su facebook quanto vogliamo ma, se non iniziamo a impegnarci per fare qualcosa di concreto, le nostre intenzioni rimangono semplici chiacchiere: qualsiasi idea, per quanto buona possa essere, è assolutamente inutile se non si fa nulla per realizzarla.

Vi invito perciò a unirvi a noi non solo con le parole ma anche con i fatti!

Perché alla fine sono solo quelli che contano veramente.

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