Sono tutti a conoscenza che lo scorso 7 gennaio 2015 alcuni estremisti musulmani hanno attaccato la sede della rivista satirica francese “Charlie Hebdo” provocando morti e feriti tra i giornalisti che vi lavoravano e tra le forze dell’ordine intervenute sul luogo, vittime per le quali si esprime un sentito cordoglio.
La motivazione di questo tragico attacco terroristico risulta essere legata alla pubblicazione da parte della suddetta rivista di alcune vignette raffiguranti, in maniera blasfema, il profeta Maometto.
Questo ha fatto considerare l’evento come un attacco alla libertà di espressione e ha perciò scatenato una catena di “solidarietà” verso i giornalisti colpiti caratterizzata dalla frase/hashtag “Je suis Charlie Hebdo”.
Per quanto questo caso sia decisamente molto piú grave a causa della violenza estrema perpetratasi, viene però da chiedersi come mai quando nel 2009 la stessa rivista aveva licenziato un vignettista per “antisemitismo” nessuno si era scandalizzato e mobilitato?
Perché poi nessuno si è mai scandalizzato quando gli storici revisionisti sono stati vittime di lesioni e incarcerazioni per avere espresso la propria opinione su un evento storico?
Il dubbio che emerge è che la libertà di espressione debba essere tutelata solo quando fa comodo.
Sebbene quello della disparità di trattamento nella tutela della libertà di parola sia un tema importante, il punto piú grave della vicenda, e che s’intende affrontare in questo intervento, è che dei folli possano seminare il panico in Europa così facilmente.
Questo perché quello del 7 Gennaio non è un caso isolato.
Sono anni che le periferie di Parigi (cosí come quelle di città come Londra, Amsterdam, Stoccolma, etc.) vengono messe sottosopra da immigrati arabi e africani, i quali spesso sono spinti dall’odio nei confronti dei paesi in cui vivono (talvolta pure con una pennellata di islamismo radicale).
E a comportarsi in questo modo nella stragrande maggioranza dei casi non sono dei nuovi arrivati, bensì degli immigrati di seconda o terza generazione che sono nati e cresciuti in Europa!
Per quanto gli esponenti delle lobby “progressiste” affermino tutt’altro, il fatto che i terroristi responsabili dell’attacco a Charlie Hebdo siano “francesi” di seconda e terza generazione dimostra infatti ancora una volta come sia impossibile l’integrazione di genti che con noi non c’entrano niente né etnicamente né culturalmente.
Nonostante ciò, c’è comunque qualcuno che sostiene che non tutti gli immigrati musulmani sarebbero cosí radicali e che quelli che agiscono in questo modo lo fanno per colpa di una società che non li vuole integrare (sic!).
A parte il fatto che questi campioni della logica dovrebbero spiegare come si distinguono i musulmani “bravi” da quelli “cattivi”, come si può incolpare la società di non integrare gli immigrati quando questi ricevono case popolari, contributi sociali, contributi familiari, etc.?
Per non parlare poi del ribaltamento del principio di buon senso secondo cui è l’ospite a doversi adattare in casa altrui: non sono difatti rari i casi di modifica delle tradizioni locali per non turbare gli animi degli immigrati, come l’abolizione dei canti di natale nelle scuole o la rimozione della carne di maiale nelle mense.
Cosa bisognerebbe fare d’altro?
Cedere forse loro direttamente le nostre abitazioni e tutti i nostri beni nonché convertirci in massa all’islamismo?
Anche se paradossalmente succedesse, stiamo certi che la cricca progressista troverebbe comunque altre accuse verso i “cattivi” e “razzisti” indigeni europei.
In un tempo di grande pericolo per l’incolumità dell’Europa e delle sue genti, quello che serve non è una finta solidarietà per la difesa di una fittizia libertà di espressione e nemmeno un maggiore sforzo di “integrazione” degli immigrati, bensì la capacità di riconoscere il vero nemico e respingerlo, proprio come fece un altro “Charlie” nel 732 a Poitiers.
Je suis Charlie Martel.