Cosa è il lombardo? Se domani andassimo in Piazza Duomo a Milano e avviassimo un bel sondaggio rivolgendo questa semplice e innocua domanda ai passanti ci ritroveremmo come principale risposta “un dialetto” e come risposta secondaria “una lingua”. Un grosso problema che si riscontra di sovente parlando di lombardo riguarda difatti la sua classificazione tassonomica; cioè, il lombardo è una lingua o un dialetto? Dato che esistono diverse definizioni di “lingua” e “dialetto”, per rispondere alla domanda bisogna prima capire cosa s’intende con questi due lemmi.
Se assumiamo una definizione di lingua usata fino a qualche decennio fa, ossia “loquela ben codificata e di affermato prestigio con una letteratura storica propria”, non si potrebbe sicuramente parlare di lingua lombarda, ma si potrebbe tuttavia parlare per esempio di lingua milanese. A questa definizione di lingua corrisponde una definizione di dialetto come “qualsiasi loquela con una propria caratterizzazione territoriale, ma privo di rilevanza politica o prestigio letterario”. Sebbene siano ancora adottate da parecchi retrogradi linguisti italiani, le dette definizioni sono scientificamente poco significative, al punto da essersi meritate il famoso aforisma: “una lingua è un dialetto che possiede un esercito e una marina”.
Oltre a quella esposta, vi sono ulteriori definizioni di lingua, ma dato che esporle tutte risulterebbe noioso ed esulerebbe dal tema della presente trattazione, fornisco quella che, a mio avviso, è la più sensata (nonché la piú diffusa in ambito scientifico), cioè “insieme di loquele mutualmente intercomprensibili”. In questo contesto, il termine dialetto è inteso come sinonimo di loquela. Da ciò ne deriva che lingua e dialetto non sono categorie opposte, ma una categoria dell’altro (insieme o sottoinsieme, a seconda del punto di vista). Certo, anche questa definizione non manca ovviamente di soggettività se consideriamo che l’intercomprensibilità tra una loquela e un’altra può variare in base al livello di preparazione culturale dei parlanti, può non essere transitiva, etc. ma di sicuro ha piú significatività rispetto a quella basata sulla fortuna politica di una loquela.
Prendendo come riferimento il locutore medio, non ci saranno comunque grandi discussioni nel sostenere che, secondo quest’ultima definizione, sarebbe probabilmente meglio parlare di lingue lombarde e non di lingua lombarda. Più precisamente, si può dire che il lombardo non è altro che un gruppo di quattro lingue (lombardo centrale o insubrico, lombardo orientale o orobico, lombardo meridionale o emiliano, lombardo occidentale o piemontese) con discreta intercomprensibilità.
A complicare la situazione linguistica del gruppo lombardo vi è però un’altra importante questione: la presenza di numerosi dialetti di transizione. Fatta eccezione per il confine tra Bergamo e Como, è difatti quasi impossibile trovare una netta separazione tra una lingua lombarda e un’altra. Questo problema è alla base di un’altra critica che viene spesso mossa nei confronti del lombardo dai sostenitori della prima, cioè che non non essendoci confini linguistici ben definiti, non si può parlare di lingue. Ovviamente si tratta di una critica un po’ assurda perché sarebbe come sostenere l’inesistenza del bianco e il nero perché in mezzo vi è una scala infinita di grigi.
L’esistenza di questo continuum linguistico rafforza perciò l’evidenza che, sebbene abbiano subito diverse influenze linguistiche, i Lombardi hanno tuttora vernacoli decisamente simili. D’altronde, non è sicuramente irragionevole ipotizzare che se non si fosse verificata una secolare frammentazione politica, ora ci ritroveremmo un panorama linguistico decisamente più omogeneo (paragonabile alla vera Francia, cioè la parte settentrionale della Repubblica Francese).
Essendovi dei dialetti di transizione anche tra il lombardo e altre lingue confinanti (come tra il lombardo e il ligure, tra lombardo e veneto, etc.), alcune persone quindi mettono in discussione l’unicità del lombardo. Ovviamente è lecito chiedersi se quelle che erano chiamate lingue lombarde fino al risorgimento sono imparentate tra di loro e hanno qualche caratteristica unica che al contempo le unisce e le differenzia poi da altre lingue. Molti linguisti inseriscono infatti queste lingue all’interno della famiglia linguistica cosiddetta “gallo-cisalpina” (o “gallo-italica”) celebre perché il pronome personale non deriva dal nominativo latino ego ma dall’accusativo me (da cui la definizione di “lingua del mi”) e che comprende anche il ligure, il romagnolo e il veneto. Tuttavia, se si analizzano bene queste lingue è possibile trovare una caratteristica fondamentale che caratterizza tutte le lingue lombarde: la negazione postverbale. Si tratta di una caratteristica unica delle 4 lingue lombarde e che le differenziano non solo dalle altre lingue gallocisalpine, ma anche da tutte le altre lingue romanze (cioè quelle derivate dal latino, come italiano, spagnolo, francese, rumeno, etc.). La negazione postverbale è difatti presente, oltre che nel lombardo, nelle lingue germaniche e questo porta ovviamente a pensare che si tratti di un’eredità proveniente dallo stesso popolo che ci ha dato il nome: i Longobardi.
Un altro problema sulla classificazione filologica del lombardo riguarda la sua classificazione sistematica poiché c’è chi lo considera parte della famiglia linguistica galloromanza (romanzo occidentale) e chi invece lo inserisce nella famiglia linguistica italiana (romanzo orientale). Una certa colpa per questa confusione la ha anche il Sommo Poeta. Chi ha studiato la Divina Commedia ricorderà infatti la celebre frase dantesca «del bel paese là dove ‘l sì suona» presente nell’Inferno. Si tratta di una frase poetica che lascia il tempo che trova considerato che lo stesso avverbio affermativo “sì” è presente pure nello spagnolo. Chissà perché questo non viene mai preso in considerazione dai sostenitori della tesi secondo il quale le parlate lombarde sarebbero dialetti italiani. Del resto credo sia comunque molto eloquente notare che nonostante il fatto che il lombardo sia stato riconosciuto internazionalmente come lingua galloromanza in pericolo d’estinzione, lo stato italiano continua a considerarlo un insulso dialetto. Vi è infatti una serie di caratteristiche che mettono in comune il lombardo alle altre lingue romanze occidentali, come l’assenza di geminazione (le consonanti doppie a livello fonetico), la sonorizzazione delle consonanti all’interno delle parole (es: faticam – fadiga), etc. La presenza di vocali nasali, la presenza delle vocali turbate (come i suoni “oeu” e “u” che corrispondono rispettivamente alla “ö” e alla “ü” in tedesco) e la tendenza a perdere le vocali finali atone sanciscono poi l’appartenenza del lombardo alla sottofamiglia galloromanza.
Per ricapitolare, il lombardo fa perciò parte della sottofamiglia delle lingue romanze occidentali, la quale comprende a sua volta il gruppo iberoromanzo e il gruppo galloromanzo. Quest’ultimo è infine suddiviso in sottogruppo settentrionale, sottogruppo occitano e sottogruppo cisalpino (sottogruppo cui il lombardo appartiene). Giusto per chiarire le idee a chi è poco ferrato in linguistica, si ricorda che l’italiano standard è una variante del toscano, lingua appartenente alla sottofamiglia orientale, la quale comprende il gruppo italoromanzo e il gruppo balcanoromanzo.
Tale ulteriore precisazione è da considerarsi doverosa perché moltissimi lombardi sono tuttora convinti che la propria lingua sia un dialetto dell’italiano. Ma come sarebbe possibile ciò se i due idiomi in realtà non fanno neppure parte della medesima sottofamiglia? In verità, è sufficiente possedere un minimo senso critico per intuire come pure la linguistica sia stata strumentalizzata per cercare di legittimare uno stato centralista come la Repubblica Italiana, la quale non rispetta le naturali diversità dei popoli che lo compongono.