Se dal punto di vista della fonetica, cioè dei suoni presenti in una lingua, il lombardo ha mantenuto pressoché inalterate alcune sue caratteristiche distintive (come le vocali anteriori arrotondate), dal punto di vista dell’ortografia, cioè della maniera con cui i suoni sono rappresentati graficamente, la questione è decisamente più complicata.
Prima di parlare a livello tecnico delle varie ortografie che sono state sviluppate per scrivere nelle quattro varianti del lombardo, ritengo perciò sia utile fare una piccola introduzione storica alla questione dell’ortografia.
Oltre ad aver favorito la seguente occupazione dei territori lombardi da parte di potenze forestiere come Francia, Spagna, Venezia e Austria nell’età moderna, va notato che la frammentazione politica, che ha caratterizzato i lombardi a cominciare dal dodicesimo secolo, ha avuto significativi risvolti anche sul piano linguistico. In particolare, il mancato sviluppo di una coscienza nazionale lombarda ha indubbiamente consentito che nel sedicesimo secolo fosse adottato, per il suo prestigio letterario, il fiorentino emendato come lingua ufficiale dei vari stati lombardi dell’epoca. Sebbene anche i ceti più abbienti abbiano continuato a parlare in lombardo almeno fino agli inizi del ventesimo secolo, l’italiano standard ha comunque influenzato i nostri vernacoli, oltre che a livello lessicale, anche su quello ortografico. L’ortografia toscana, che ha derivato le proprie regole ortografiche dalle regole di pronuncia ecclesiastica del latino, è difatti alla base delle ortografie storiche, come la grafia milanese classica e la grafia torinese classica, sia di quelle più recenti, come la grafia milanese moderna, la grafia ticinese, la grafia bergamasca, etc. Tuttavia, va notato che nel primo caso, cioè quello delle ortografie sviluppatesi tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, l’influenza del toscano è stata attenuata dall’introduzione di alcune regole ortografiche di quella che, oltre ad essere la lingua diplomatica del tempo, era la lingua letteraria più imparentata al lombardo: il francese.
La grafia milanese classica, che trova la sua origine con gli scritti seicenteschi dello scrittore meneghino Carlo Maria Maggi e l’affermazione con la poesia settecentesca del sempre milanese Carlo Porta, nacque proprio come intermedio tra quella italiana e quella francese. Essa unisce infatti regole caratteristiche dell’italiano (che derivano dalla pronuncia ecclesiastica del latino), come la pronuncia di “c” e “g” seguite da “i” ed “e” come consonanti affricate alveolari [tʃ] [dʒ] (citaa, gera), l’utilizzo del digramma “ci” e “gi” per rappresentare le consonanti appena accennate quando precedono “a”, “o” ed “u” (ciapà, giust), l’uso del digramma “ch” e “gh” per rappresentare le consonanti occlusive velari quando precedono “i” ed “e” (che, ghisa), la rappresentazione della consonante fricativa postalveolare sorda [ʃ] con i grafemi “sc” o “sci” (scior), a elementi tipici dell’ortografia francese, come l’uso del trigramma “oeu” per rappresentare la vocale anteriore semichiusa arrotondata [ø] (coeus) e la vocale anteriore semi-aperta arrotondata [œ] (bloeu), la pronuncia di “u” come vocale anteriore chiusa arrotondata [y] (mur), il raddoppio delle consonanti per indicare che la vocale precedente è aperta e breve. Naturalmente, oltre ai principi ortografici presi dalle menzionate lingue letterarie, vi sono anche alcune norme particolari dettate da peculiarità fonetiche del milanese, come la rappresentazione della vocale posteriore arrotondata chiusa [u] con la lettera “o” (nazion, vos), la rappresentazione della consonante fricativa postalveolare sonora [ʒ] con i grafemi “sg” o “sgi” (sgenee, ronsgia), la rappresentazione dei complessi consonantici [stʃ] [zdʒ] con i digrammi “s’c” e “s’g” o i trigrammi “s’ci” e “s’gi” (s’ceppà, s’giaff), l’uso della “h” per indicare la velarità di “c” e “g” in fine di parola (bianch, classegh).
L’altra ortografia storica lombarda è la grafia torinese classica, meglio nota come koiné piemontese, che ha avuto origine con i celebri “tòni” del Seicento e rappresenta un altro compromesso tra la grafia dell’italiano e quella del francese. Si differenzia dalla grafia milanese classica per pochissime divergenze, come l’uso del digramma “eu” al posto del trigramma “oeu”, l’uso del simbolo “ë” per rappresentare la vocale centrale media (chërde), l’utilizzo di “n-” per rappresentare la consonante nasale velare intervocalica (lun-a), la pronuncia solamente sonora di “z” (zanziva), nonché l’assenza dei digrammi “sc” e “sg” e dei trigrammi “sci” e “sgi”.
Purtroppo, la toscanizzazione e la meridionalizzazione coatta portate avanti prima dal fascismo e poi dalla repubblica, accompagnata dalla sciocca convinzione che i vernacoli lombardi fossero spregevoli linguaggi e dialetti da dimenticare per evitare problemi linguistici alle nuove generazioni, ha messo in grave pericolo la sopravvivenza di queste due grafie. Sebbene siano basate su regole ortografiche comuni al toscano, e quindi relativamente semplici da imparare per un italofono, l’ingenuo proposito di rendere le grafie storiche lombarde più “comprensibili” al lombardo medio ha condotto molti linguisti di dubbio valore a sviluppare grafie fonetiche (?) ancora più simili al toscano. Una di queste è la grafia milanese moderna: ideata dal Comitato per il Vocabolario Italiano-Milanese presieduto da Claudio Beretta, questa proposta di riforma avrebbe cercato di risolvere alcune grosse “problematiche” della grafia classica. In particolare, sarebbe stato affrontato il problema (?) della “o” della grafia classica: la “o” chiusa milanese è così diventata una “u” come in italiano (“vos” diventa “vus”), mentre “u” e “oeu” sono invece diventate “ü” e “ö” come in tedesco. Inoltre, essa avrebbe cercato di risolvere anche il “problema” delle consonanti fricative alveolari rappresentando la sorda [s] con “s” (“mezz” diventa “mess”) e la sonora [z] con “ʃ” (“tosa” diventa “tuʃa”) e quello delle consonanti e vocali doppie mantenendole solo a fine di parola.
Altro esempio di grafia più toscaneggiante è quella ticinese, che come la milanese riformata cerca di rendere meno “difficile” il passaggio dall’italiano al lombardo tramite il cambiamento da “o” a “u”, l’utilizzo delle vocali con la dieresi (ü e ö) per rappresentare le vocali anteriori arrotondate e l’abolizione di tutte le consonanti doppie.
Un’ulteriore grafia toscanofila è quella bergamasca: sviluppata nella prima metà del ventesimo secolo dall’associazione folcloristica Ducato di Piazza Pontida, differisce dalla ticinese solamente per qualche dettaglio, come l’uso del trattino al posto dell’apostrofo nei digrammi “s’c” e “s’ci” e la pronuncia della “z” sempre come fricativa alveolare sonora (zét).
Un caso particolare è dato invece dalla situazione del parmigiano, del reggiano e del modenese: essendo varianti che si staccano in maniera abbastanza marcata dal resto del lombardo e mancando di una vera e propria letteratura storica, negli ultimi anni sono state proposte numerose grafie (spesso imbottite di numerosi segni diacritici) per questi dialetti, ma nessuna è riuscita ad affermarsi.
Come abbiamo spiegato negli articoli precedenti i vernacoli lombardi per quel che riguarda la grammatica e il lessico non sono molto diversi tra loro, essendo abbastanza intercomprensibili, però il fatto che ogni variante lombarda venga scritta con ortografie diverse rappresenta un problema non trascurabile causando confusione e a volte anche incomprensione. Siamo favorevolissimi ovviamente al conservare il lombardo insieme alle sue 4 varianti( insubrico, orobico-cenomane, piemontese e emiliano) le quali rappresentano una grande ricchezza per la nostra lingua. Tuttavia crediamo che l’ortografia migliore da adottare per tutte le parlate lombarde sia quella milanese classica, visto che ha una propria storia letteraria, è stata la più prestigiosa, non vi sono ridicole semplificazioni come nella grafia ticinese e soprattutto essendo il frutto di un compromesso tra la grafia toscana e la grafia francese rappresenta ciò che il lombardo è : un gruppo di lingue galloromanze cisalpine.
L’unica eccezzione potrebbe rappresentare il piemontese scritto con la grafia torinese classica la quale, pur essendo diversa da quella milanese solo per pochi particolari ha anche essa un proprio prestigio storico e letterario, senza contare che il Piemonte a differenza del resto della Lombardia etnica abbia conosciuto un lungo periodo di unità politica.
Del resto per quale motivo inventare dei nuovi tipi di ortografia se abbiamo già i nostri i quali hanno avuto modo di affermarsi storicamente.
Adalbert Ronchee
Lissander Cavall