Sebbene complessivamente non si differenzi molto dalle altre lingue romanze, a livello di sintassi, ossia dei modi con cui le parole sono accostate per formulare proposizioni e queste ultime sono collegate per formare periodi, il lombardo ha comunque sviluppato alcune piccole caratteristiche che lo contraddistinguono.
Per quanto riguarda il posizionamento Soggetto-Verbo-Oggetto, va detto che non si riscontrano grosse differenze: esattamente come in francese, italiano o spagnolo, tutte le varianti del lombardo utilizzano generalmente la tipologia Soggetto Verbo Oggetto (milanese: “mi pacci ona pomma”), con l’unica eccezione dell’utilizzo della tipologia Soggetto Oggetto Verbo (milanese: “mi la toeui”) quando è usato un pronome, direttamente o indirettamente, al posto dell’oggetto.
Discorso diverso va invece condotto su altri punti, come la negazione. La prima grossa differenza che si nota rispetto alle altre lingue neolatine, tra cui l’italiano, è difatti data dalla posizione della negazione: se nella maggior parte delle lingue romanze la negazione è rimasta preverbale come in latino (italiano: “non mi piace”), in lombardo la negazione è invece sempre postverbale, cioè dopo il verbo o l’ausiliare (milanese: “sont minga andaa”, torinese: “i l’hai nen mangià”, bergamasco: “adess lavore mia”, modenese: “a-n sun mia boun”). Rimanendo in ambito di negazione, va poi ricordato che in lombardo non è mai ammessa la combinazione di una negazione con un pronome negativo (italiano: “non c’è niente”, milanese: “gh’è nagott”), altra caratteristica presente nelle lingue germaniche.
Particolare elemento distintivo rispetto alle altre lingue romanze, ma diffuso anche nelle altre lingue galloromanze cisalpine (cioè veneto, romagnolo e friulano), è l’utilizzo del pronome personale rafforzativo, noto anche come pronome clitico (milanese: “lee la dis”, torinese: “mi i son”, bergamasco: “noter a’m va”, modenese: “me a son andèe”). La forma e la presenza di questi pronomi cambiano notevolmente da una variante all’altra: se nel lombardo centrale sono obbligatori solo per la seconda e la terza persona singolare, nel lombardo orientale sono obbligatori anche per la prima e la terza plurale (servono difatti a distinguere le voci verbali con medesima coniugazione), mentre nel lombardo occidentale e in quello meridionale lo sono per tutte quante le persone. Inoltre va aggiunto che un’interessante particolarità dei pronomi clitici è che, nelle frasi interrogative di alcuni dialetti, il soggetto clitico si sposta dopo il verbo formando una sorta di suffisso (bergamasco: “se dighel?”).
Un’ulteriore caratteristica tipica del lombardo è l’ampio uso del pronome “che” in situazioni del tutto inusuali per il toscano. Esso è infatti usato sia per rafforzare le espressioni (milanese: “chi che el dis”), sia per esprimere il secondo termine di paragone nelle proposizioni comparative (milanese: “quest liber l’è mei che quell”), sia per supportare alcune proposizioni affermative e interrogative (milanese: “quan che voo via”). In alcune varianti del lombardo sono poi molto frequenti i verbi seguiti da una preposizione o da un avverbio che ne modifica il significato. Ad esempio, in milanese il verbo “trà” (tirare, lanciare) può diventare “trà via” (gettare), “trà in pee” (inscenare), “trà insemma” (riunire), “trà sù” (vomitare), “trà giò” (buttar giù, demolire), “trà foeura” (rinvigorire). Essendo presente in lingue germaniche come il tedesco e l’inglese (basti pensare ai celebri “phrasal verbs” inglesi!), anche questo è un altro fenomeno linguistico che abbiamo sicuramente ereditato dai nostri avi germanici. Sebbene non sia diffusa tra tutti quanti i dialetti, un’altra peculiarità lombarda è infine l’uso dell’articolo determinativo abbinato ai nomi propri di persona (“la Giulia”, “el Carl”), altra caratteristica di possibile origine germanica, considerato che è presente anche nel linguaggio corrente del tedesco.
La presenza nelle varianti del lombardo di fenomeni sintattici tipici delle lingue germaniche, come la piú volte citata negazione postverbale, conferma quanto la germanizzazione della nostra terra sia stata determinante nello sviluppo delle nostre lingue.
Vuoi per ignoranza, vuoi per interesse, certi italianisti ottocenteschi in odore di massoneria hanno purtroppo minimizzato l’eredità germanica lombarda, esaltando invece all’inverosimile l’ovvia eredità romana. In questo incise anche il Fascismo, così come prima ancora il Manzoni stesso col suo ritratto a tinte fosche dell’epopea longobarda in Italia. Un’idea di stampo risorgimentale francamente assurda, visto che i Longobardi furono sul punto di riunire sotto un’unica corona l’Italia intera.
Ma naturalmente i problemi non finiscono qui. Come se non bastasse, l’esasperazione della latinità ha difatti portato i movimenti identitari che si sono sviluppati a partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso a contrapporle un’esaltazione estrema (e francamente pagliaccesca) delle nostre radici celtiche, sminuendo sempre la componente germanica della nostra identità. Non è del resto un mistero che le varie leghe settentrionali abbiano finito per sposare una certa retorica neoguelfa (o partigiana) germanofoba.
Ed è proprio questa lunga marginalizzazione che ha subito l’eredità germanica a spingerci a sottolineare il suo ruolo nel contesto lombardo.
Vogliamo infatti ricordare che l’eredità gota e longobarda, assieme a quella celto-ligure, rappresenta uno dei due principali fattori dell’unità etnica dei Lombardi.
Naturalmente, il voler rimarcare la nostra eredità germanica non comporta in alcun caso marginalizzare o sminuire la nostra eredità celtica, e tanto meno rinnegare la nostra fondamentale eredità culturale latina. Altrimenti commetteremmo lo stesso errore di chi ci ha preceduto.